Roma, 22 dicembre 2024 – Le due sentenze della magistratura giudicante su Matteo Renzi e Matteo Salvini possono favorire, paradossalmente (ma solo fino a un certo punto), la ricerca di un nuovo e meno burrascoso rapporto tra politica e giustizia in Italia. Sarebbe arrivato il momento, del resto, dopo almeno tre decenni di furibonda contesa e di ricorrenti invasioni di campo e sconfinamenti tra i due ambiti dell’assetto istituzionale e costituzionale dello Stato, di tentare (almeno) di tornare all’antica lezione liberale di Montesquieu sulla separazione dei poteri come condizione essenziale per assicurare sia l’equilibrio tra di essi sia i diritti e le libertà degli individui.
Più volte, d’altra parte, i Presidenti della Repubblica hanno richiamato all’ordine i rappresentanti dei due ambiti interessati dal costante e continuo contrasto. Ma, di fatto, non si è mai prodotta un’attenuazione del conflitto. Il risultato è stato, invece, quello di una sconfitta per tutti che non è estranea (tutt’altro) alla caduta di fiducia dell’opinione pubblica tanto nei confronti della politica quanto rispetto all’azione della magistratura.
Le due recenti sentenze, però, potrebbero segnare una discontinuità, perché, in definitiva, mettono a fuoco il primo e vero nodo che la riforma della giustizia dovrebbe affrontare, non per i politici ma per tutti i cittadini: quello dei tempi. È vero che la magistratura giudicante in più occasioni (comprese le ultime su Salvini, Renzi, Esposito) sconfessa e smentisce tesi e teoremi dei pm (il che rappresenta un argomento contro la separazione delle carriere), ma se questo avviene dopo 5, 10 o 15 anni dall’inizio dell’indagine, che giustizia è? Se un’assoluzione arriva con questi ritardi infiniti, se un’inchiesta può durare decenni senza che vi sia almeno un primo verdetto, che giustizia è? Varrebbe la pena, dunque, mettere mano innanzitutto ai tempi della giustizia, perché il primo potere da riequilibrare è esattamente quello di far durare in eterno le inchieste.