Roma, 25 novembre 2024 – Le parole creano. Fanno esistere ciò che non c’era. Danno senso e anima alle cose, alle persone, alle idee. Dare un nome significa dare vita, riconoscere l’esistenza. Il primo compito che il Dio della Bibbia assegna ad Adamo ed Eva è dare un nome al creato: ai frutti, ai fiori, agli animali, alle nuvole, al sole.
Il creato inizia a esistere davvero solo nel momento in cui viene chiamato. Nominato. Non sorprende dunque che il movimento di emancipazione femminile – la rivoluzione meno violenta fra le molte che hanno scosso le nazioni e i popoli fin dalle origini del mondo – fondi oggi il cuore della sua battaglia proprio sulle parole. Le parole, appunto, creano.
Pensate alla parola femminicidio, inventata non più di quindici anni fa. Pensate alla parola stalking, altrettanto recente. È solo grazie all’uso di queste parole che abbiamo potuto dare corpo e consistenza – e dunque far esistere – fenomeni che oggi cercano di rendere giustizia a reati un tempo semplicemente ignorati. Meglio ancora: invisibili. Prima dell’esistenza di quelle parole, nessuno riusciva a inquadrare gli omicidi o la persecuzione delle donne - per mano di mariti, padri, compagni - come un fenomeno sociale, e dunque come una piaga comune da poter stigmatizzare e combattere.
I femminicidi sono allora lo scarto violento di una rivoluzione fatta con le parole, la rivoluzione pacifica di un femminismo che vede nella cultura e nell’educazione, ma soprattutto nell’alleanza con gli uomini - nel loro riconoscimento, nella loro adesione alla causa - l’unica possibilità di riuscita. Le donne perseguitate o uccise incarnano il prezzo più alto di una rivoluzione che punta a sovvertire un ordine ancora troppo spesso ingiusto. Non nelle leggi, ma nelle consuetudini di una società più lenta del pensiero. Queste donne, dunque, diventano involontariamente simboli del motivo per cui il femminismo è necessario. Uno spargimento di sangue reale, un contraccolpo tragico e sistemico che trasforma le vittime di femminicidio in martiri involontarie di una battaglia che non hanno scelto, ma che si sono trovate inevitabilmente a incarnare, e a combattere, con i loro “no”, con i loro “basta”, con i loro “smettila”.
Le parole, quando si portano dentro il Dna rivoluzionario che sovverte consuetudini consolidate per millenni, sono spesso urticanti. Difficili da comprendere, accettare, digerire. E allora non deve sorprendere che la parola “patriarcato” divida e spaventi. Perché chiama in causa senza ipocrisia il rapporto tra donne e uomini, un rapporto in cui le dinamiche del potere inevitabilmente si fondono con il sentimento, la famiglia, il sesso, gli affetti, il lavoro, la consuetudine di anime e corpi. Tutto quello, cioè, che lega e divide, definisce e delimita la complessa convivenza tra generi che noi chiamiamo umanità.
Chi oggi - usando le parole come scudi difensivi – nega l’evidenza del patriarcato, vuole negare un sistema di potere che da sempre ha messo le donne ai margini, e lo ha fatto anche attraverso l’amore: l’amore coniugale, familiare, parentale, che spesso diventa l’alibi per nascondere e giustificare lo squilibrio di potere. Quella presunzione d’amore che rende difficile ribellarsi, che confonde l’abuso con la normalità.
E qui torniamo alle parole. Quelle che creano. Quelle che possono abbattere il silenzio, costruire nuovi spazi, dare forma a un domani che non si limiti a contenere l’uguaglianza, ma a salvaguardarla. Perché se il patriarcato uccide per paura di essere nominato, allora è proprio dal nominare che possiamo ripartire. Le parole non guariranno ogni ferita, ma possono essere il primo seme di un mondo in cui nessuna donna debba più dire “smettila” per difendere il proprio diritto di esistere. Dove ogni parola diventi ponte, e non più arma. Dove il linguaggio, finalmente, sia amore e non possesso. Dove - parafrasando Christa Wolf - tra uccidere e non morire si possa scegliere una terza via: vivere.