Giovedì 26 Dicembre 2024
MICHELE BRAMBILLA
Editoriale e Commento

Montanelli, Hitler e l'intervista fantasma

Disse che era stata censurata dal regime. "Ho spesso inventato, mai mentito"

Montanelli a terra dopo essere stato gambizzato dalle Br

Ci vorrebbe Montanelli, per raccontare le tragicomiche dei giorni nostri. Sabato sera è andato in onda un Dossier del Tg2 per ricordarlo, a 110 anni dalla nascita. Era notte quasi fonda, ma in molti abbiamo rinunciato a rivedere i gol della finale di Champions (o ad andare a letto) perché in molti abbiamo nostalgia di lui. Quanto ci manca. Indro Alessandro Raffaello Schizògene Montanelli era nato a Fucecchio, in provincia di Firenze, il 22 aprile 1909 e morì a Milano – la città da cui si sentì adottato – il 22 luglio del 2001. Non sto a ripetere l’ovvio, e cioè che è stato il più grande giornalista italiano del Novecento. Piuttosto, vorrei soffermarmi su un aspetto particolare emerso dal Dossier del Tg2: e cioè sulla grandezza delle sue innocenti bugie.

AD ESEMPIO. Montanelli raccontò di essere stato in piazza Venezia il 10 giugno 1940 quando il Duce annunziò la sciagurata entrata in guerra; in Estonia e in Finlandia quando i sovietici le invasero; in piazzale Loreto quando i partigiani esposero i cadaveri di Mussolini e della Petacci: e così via, in una serie di fortunati appuntamenti con la storia. Di tutti i racconti sospetti di Montanelli, il più bizzarro fu quello dell’intervista a Hitler. Una frottola talmente tante volte ripetuta che Indro, con il passare degli anni, finì per credervi.

DUNQUE raccontava Montanelli che il primo settembre del 1939, quando la Wehrmacht invase la Polonia, lui era naturalmente lì, sul posto, esattamente dove fu scattata la celeberrima foto dei soldati tedeschi che sollevano la sbarra che delimitava il confine. Ebbene, Montanelli dice che mentre assisteva all’entrata dei carri armati, un soldato si accorse della sua presenza e gli si avvicinò per chiedere – con i modi che possiamo immaginare – chi fosse e che cosa ci facesse lì. "Sono un giornalista", avrebbe risposto Montanelli. Giornalista? Italienisch? Erano sufficienti queste due credenziali per decretarne la condanna a morte. E così il soldato tedesco mise Indro contro un albero e impugnò il mitra per toglierselo di torno. Ma in quel momento, ecco l’imprevisto. Si aprì lo sportello di un Panzer e dalla torretta sbucò un uomo esile, non molto alto, con un impermeabile beige, la frangetta nera e due baffetti che non si potevano confondere. Era Hitler.

SAPUTO che l’intruso era un giornalista, il Führer ne bloccò l’esecuzione. "Scese dal carro armato, venne di fronte a me e mi disse: ‘Prendete il taccuino che vi do un’intervista nella quale spiego perché la Germania entra in guerra’", raccontava Montanelli. "Parlò a lungo e sempre lui, non mi lasciò il tempo di fargli domande, sembrava invasato. Poi, girò i tacchi e se ne tornò nel Panzer, riprendendo l’avanzata. Io corsi in albergo e telefonai a Borelli, il direttore del Corriere, annunciandogli lo scoop. Lui era naturalmente entusiasta, perché si trattava della prima intervista in assoluto rilasciata da Hitler. Mi chiese di scrivergli due pagine intere. Le scrissi, e nel pomeriggio le dettai agli stenografi di via Solferino". Ma che accadde poi? "Verso sera, Borelli mi chiamò imbarazzato: ‘Mi spiace Indro, ma il Minculpop ha bloccato l’intervista. Mussolini in persona è intervenuto per porvi il veto’". Così, l’intervista-fantasma non uscì mai, e a garantirne l’autenticità rimase solo la parola del suo presunto autore. Ma le balle di Montanelli non fecero mai di lui un bugiardo. Anzi, seppe comunicare, con l’arte dell’invenzione del vero, fatti e personaggi assai più reali di quelli riportati da testimoni oculari.

EGLI STESSO ammetteva: "Ho spesso inventato: ma mai mentito. È, semplicemente, che ho usato la narrativa per raccontare la vita". E questa resta l’impareggiabile (e inimitabile: chi ha cercato di copiarne lo stile si è reso macchietta) grandezza di Montanelli: una capacità di scrittura talmente chiara, bella e penetrante da sembrare un dono soprannaturale. Di quella razza oggi è rimasto forse solo Massimo Fini, al quale Montanelli avrebbe infatti voluto lasciare – se avesse potuto – la sua Stanza sul Corriere nella quale dialogava con i lettori.

MA SE LA SCRITTURA fu grazia ricevuta, il coraggio fu merito. Indro ce n’ebbe, di coraggio, come pochissimi altri. Fondò un giornale con un’anima ingombrante, un’anima che respirava controcorrente. Ne pagò le conseguenze con l’isolamento. Quando le Brigate Rosse spararono alle sue lunghe e magrissime gambe, nei salotti perbene si brindò. Erano gli stessi meschini, vigliacchi salotti che cercarono poi di arruolarlo quando ruppe con Berlusconi, facendone un’icona della sinistra: sia di quella radical, sia di quella postcomunista. Ma Montanelli non fu mai né l’una né l’altra cosa. E tantomeno fu un grillino ante litteram, come qualcuno vorrebbe ora farci credere. Fu "solo un giornalista", com’egli si definiva. Il più grande, però.