Martedì 26 Novembre 2024
MATTEO MASSI
Editoriale e Commento

Michela Murgia, le parole giuste per raccontare la malattia

Una piccola rivoluzione culturale

Michela Murgia al Salone del Libro (Ansa)

Michela Murgia al Salone del Libro (Ansa)

Roma, 12 agosto 2023 – Per una scrittrice, si dirà, è più facile. Le parole sono il suo mestiere. E restano, anche quando lei se ne va per sempre, come è successo a Michela Murgia. Con certe parole però si riesce anche a fare una rivoluzione culturale, perfino quando si parla di malattia. C’è un passaggio dell’intervista che la scrittrice ha rilasciato a maggio ad Aldo Cazzullo al Corriere e in cui ha annunciato la sua malattia, che colpisce più degli altri. Prima una doverosa premessa: è forse arrivato il tempo di smettere di utilizzare un linguaggio bellico per raccontare il rapporto con la malattia. Quindi: niente più trincea, guerra, lotta e perfino sfida. Ma eccolo quel passaggio: “Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno”.

Più o meno alle stesse conclusioni e con parole simili era arrivato anche Gianluca Vialli. Che ha fatto per una vita il calciatore. “Quella con il cancro non l’ho mai considerata una battaglia. Lo considero un compagno di viaggio”. E non significa aspettare con rassegnazione l’ultimo giorno della propria esistenza. Ma vuol dire invece continuare a riempire di significato la propria vita. È forse la lezione più potente arrivata da entrambi (in tempi diversi). In grado, davvero, di portare a una rivoluzione culturale (non solo linguistica). Convenzionalmente una scrittrice o un calciatore sono modelli. A maggior ragione Murgia e Vialli e soprattutto per chi convive con la malattia nella più remota provincia, lontano dai riflettori, ascolta il continuo bombardamento di lotta (o guerra) al tumore e ha un’umana paura che quelli possano essere i suoi ultimi mesi. Ma non per questo vuole sentirsi un vinto.