Per spiegare il senso dell’inatteso affondo di Matteo Renzi ai danni di Ignazio Visco, occorre partire da due domande. La prima: il segretario del Pd vorrebbe davvero la testa del governatore di Bankitalia? La risposta è sì. La seconda: il segretario del Pd ha la forza per ottenere la testa del governatore di Bankitalia? La risposta è no. E non tanto perché è contrario il premier Paolo Gentiloni (e ancor più di lui il ministro dell’Economia, Padoan, che con Renzi non ha più rapporti da tempo), quanto perché contrarissimo è il capo dello Stato. E sarà lui, Sergio Mattarella, a distribuire le carte del prossimo governo. È, dunque, ragionevole ritenere che l’offensiva renziana si fermerà alla giornata di ieri. Se a Visco non salteranno i nervi, se l’orgoglio non lo spingerà verso un passo indietro, a fine ottobre si vedrà riconfermare l’incarico. Ne gioiranno il governatore della Bce Mario Draghi, suo grande sponsor, e diversi banchieri italiani. Quelli convinti che la stabilità dell’asse Bankitalia-Bce possa, forse, tutelarli qualora la Germania ricominci a soffiare sul fuoco delle loro fragilità sistemiche.
E allora, che senso ha avuto l’affondo renziano? È stata una manovra politica in vista delle elezioni. Una manovra, in effetti spregiudicata, che ha consentito a Renzi di cogliere tre obiettivi: allinearsi a Lega e M5s nella crociata contro Bankitalia; indicare in Visco, più che nei singoli banchieri (leggi Banca Etruria) e men che meno nel governo da lui presieduto, il colpevole delle recenti crisi bancarie; indebolire l’immagine pubblica del suo principale competitor alla guida del governo che verrà. Ovvero, Paolo Gentiloni. C’è solo un problema: per cogliere questi tre obiettivi Renzi ha incrinato il rapporto con Mattarella e ha ufficializzato il proprio isolamento politico. Una dimostrazione di debolezza. Poi, certo, se a Visco saltassero davvero i nervi...