Andare o restare? Ridurre il contingente militare o modificare gli obiettivi della missione? Battere in ritirata o limitarsi a trasferire i soldati altrove? L’unica certezza è che, a oggi, non ci sono risposte, e che quelle risposte l’Italia dovrà necessariamente trovarle da sola, visto il vuoto di potere (americano) e l’assenza di una guida (europea) che possano aiutarci a uscire onorevolmente da un incubo chiamato Libano.
Andare o restare, dunque? A poche ore dall’ennesimo clamoroso attacco militare di Israele a una base Unifil – il primo nella storia da parte di un Paese allineato agli Usa – è questa la domanda che infiamma i partiti e l’opinione pubblica, preoccupa il governo italiano e paralizza le istituzioni internazionali, in particolare Bruxelles. Il Libano è una polveriera con la miccia innescata, e il dilemma su come mettere in salvo i 1.200 militari italiani impegnati nell’operazione di peacekeeping – al netto delle dichiarazione di prammatica: “Non ci muoviamo da qui” – rischia di diventare una spada di Damocle anche per la nostra sicurezza nazionale. Dalla pancia della piazza alla minaccia di eventuali ritorsioni terroristiche, quali potrebbero essere le reazioni se un militare italiano dovesse restare ferito?
E come potrebbe il governo continuare a gestire i rapporti diplomatici con Israele, senza tradire uno storico mandato di amicizia e alleanza, e soprattutto senza una chiara copertura americana o europea? Soli, impantanati nel fango di una guerra che di ora in ora aumenta il nostro senso di impotenza – quando Netanyahu annuncia “andremo fino in fondo” apre di fatto all’impossibilità di stabilire un chiaro confine alla violenza – la sensazione è quella di non avere margini per gestire una situazione già fuori controllo, e la paura è quella altrettanto grave di esporre i nostri soldati a un rischio sostanzialmente dichiarato dalle intenzioni dell’Idf e del premier israeliano: andare-fino-in-fondo. A qualunque prezzo. Anche in spregio al diritto, alle convenzioni internazionali, al senso minimo di responsabilità evocato dal ministro Crosetto quando parla, a caldo, di crimini di guerra da parte di Israele.
La solitudine, dicevamo. L’America in attesa del voto è il vero elemento di debolezza utile a corroborare la campagna militare di Tel Aviv. Mentre l’Europa dimostra una volta di più tutta la sua inconsistenza: a fronte di un compatto asse tra Francia, Italia e Spagna - ancora ieri il premier Sanchez ha invocato lo stop alle armi a Israele - pesano soprattutto il silenzio della Germania e l’immobilismo di Ursula Von Der Leyen, impossibilitata a portare i 27 verso una risoluzione comune circa la posizione da tenere in Medio Oriente. Che è fuori controllo e che rischia di trascinarci, tutti quanti, dentro il baratro di una guerra che ancora non sappiamo quanto andrà davvero fino-in-fondo, ma che di sicuro sembra già, oggi, senza fondo.