Spiati, dossierati, registrati, intimiditi, minacciati. All’indomani dell’ennesima inchiesta-scandalo sull’Italia degli avvelenati e dei ricattati, possiamo dire di essere nel pieno di una nuova stagione ad alta percentuale di tossicità, in un Paese che credeva forse ingenuamente di aver archiviato una volta per tutte il tempo delle logge e dei patti segreti, delle coperture e dell’associazionismo oscuro.
Storie diverse, certo, ma la matrice sta nella stessa insana tentazione: dominare, attraverso informazioni più o meno false, continenti e pertinenti, lo Stato. Politica, impresa, finanza, spettacolo non fa differenza: il mirino è ad ampio spettro e ha sempre come obiettivo ultimo il potere.
A differenza degli anni ‘70 e ‘80, il salto di qualità lo fanno le tecnologie. Sono emblematiche le parole spese ieri da Giovanni Melillo, della procura nazionale antimafia: "Siamo di fronte – ha detto – a un gigantesco mercato delle informazioni riservate, con dimensione imprenditoriale". Ecco il punto, il segno dei tempi, il salto di qualità: sta tutto in due parole, e cioè mercato e impresa.
I ricattatori contemporanei, grazie alla rete, hanno assunto le ben remunerative – e inquietanti – dimensioni della multinazionale del dossier. Ieri il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha avvertito: "La tecnologia è più veloce della legge, non siamo al sicuro", esortando a fare in fretta affinché le norme riescano a disincagliare il groviglio per nulla armonioso in cui è più facile perpetrare l’inganno. Ma non basta. Per non ricommettere gli errori del passato, anche la politica deve fare la sua parte. Magari con una commissione d’inchiesta parlamentare – come già accadde con la P2, per esempio – che cerchi di appurare verità e responsabilità oltre gli aspetti giudiziari, fino a quelli più delicati e profondi: le radici etiche di un Paese che non ha perso il vizio di auto sabotarsi. Con spregiudicatezza e astuzia.