Bologna, 19 novembre 2024 – E se in Umbria la vittoria di Proietti è stata certamente favorita dal mondo cattolico e dell’associazionismo – di cui la ormai ex sindaca di Assisi è da sempre stimata rappresentante – in Emilia-Romagna si conferma anche strutturalmente quella sempiterna idea di roccaforte rossa da cui il Pd, che ha sfiorato il 43%, può aspirare a ricostruire la sua alternativa al Governo del Paese. Se non altro perché i Dem qui hanno il cuore anagrafico, oltreché simbolico, della loro classe dirigente: l’Emilia-Romagna esprime il presidente (Bonaccini), la segretaria (Schlein), e con la vittoria di de Pascale anche, idealmente, quel passaggio di consegne generazionali (Schlein e de Pascale hanno la stessa età, classe 1985) che può proiettare il partito verso il futuro.
È un bene? È un male? Ciascuno, a seconda della sua preferenza, ne trarrà le conclusioni che deve. Senza dubbio, in una democrazia sana, un’opposizione in salute non può che essere un vantaggio per tutti: spinge il Governo a migliorarsi, e la minoranza a non finire triturata da guerre intestine ormai così astiose e cortocircuitali da risultare perfino noiose. A questo proposito, ricominceremo forse, da oggi, con l’estenuante tiritera a cui avevamo già assistito dopo la vittoria di Todde in Sardegna: “Avete visto, il campo largo funziona?”. Ecco, ci auguriamo vivamente di no. Quanto meno per non scadere nel ridicolo da eccesso di entusiasmo a cui, talvolta, la vittoria può portare. La bontà o meno di un progetto politico non si può misurare sul pallottoliere delle singole tornate elettorali, sul successo o l’insuccesso di un voto.
Le analisi, fatte così, sono miopi e fuorvianti, servono solo a corroborare idee preesistenti, per i detrattori così come per i fautori della coalizione, dell’alleanza, della visione: visione, parola magica, che ancora sfugge a ogni dibattito serio sull’anima stessa dei cosiddetti progressisti. Perché un progetto politico è una visione, non un calcolo. Nel caso di specie, una visione potremmo dire obbligata, dal momento in cui non c’è alternativa all’andare insieme, al cercare un “campo” – chiamatelo poi come volete: largo, coeso, misto – che possa contenere le litigiose anime partitiche che non si riconoscono nella destra di governo. Una visione obbligata che però va, appunto, riempita di contenuti ancora troppo vaghi per poter suonare credibili.
Di sicuro, c’è solo questo: le ultime prove d’urna hanno confermato una volta di più che è tornato, insuperabile e imprescindibile, il modello più classico di bipolarismo. Non solo. Rispetto alla Seconda Repubblica, quello di oggi è un bipolarismo ben più radicalizzato: se nel ventennio berlusconiano la sfida si giocava tra due poli che avevano la parola “centro” come cardine dei rispettivi schieramenti – centro-destra, con Forza Italia a traino, centro-sinistra, con Prodi e il suo Ulivo ben più ancorato tra i moderati che tra gli estremisti – negli ultimi anni la situazione si è rovesciata. E non si può non tenerne conto. A questo proposito, un avviso ai naviganti: di destra, in tal caso, ma perché anche la sinistra intenda, e riguarda proprio il capitolo Bandecchi. Non abbiamo la controprova, ma non sempre un alleato in più regala un risultato matematico scontato. E non si può escludere che il muscolare sindaco di Terni abbia tolto voti al centrodestra, anziché portarli. Giusto per dire che la politica non è una somma, ma una sintesi. E, per fortuna, le idee talvolta contano più della calcolatrice.