Roma, 19 gennaio 2025 – A che serve essere istruiti? A che serve la scuola? A trovare un lavoro, a diventare “bambini veri” come impara a sue spese Pinocchio il burattino, a ritagliarsi un posto nel mondo, una dimensione di cittadinanza, un margine di libertà, una consapevolezza della nostra intelligenza ma anche delle nostre emozioni, una chiave di lettura che valga per decifrare noi stessi, oltre che il mondo che ci sta attorno? Sono certamente tutte risposte plausibili, e valide. Ne fa una sintesi magistrale Zygmunt Bauman, il filosofo che per primo parlò di “società liquida”, con queste parole: “Se pensi all’anno prossimo semina il granturco. Se pensi ai prossimi dieci anni pianta un albero. Se pensi ai prossimi cento anni istruisci le persone”.
L’istruzione e la scuola sono una semina di prospettive , il campo su cui si misurano la creatività e la fertilità di un popolo e il perimetro entro cui un popolo si riconosce. Sono dunque lo specchio della lungimiranza della politica, delle istituzioni, dei partiti e dei governi. Ora, è curioso che in un Paese come il nostro, così drammaticamente arretrato rispetto alle medie Ocse proprio sui temi legati alla scolarizzazione – il 20% di laureati su una media del 41% – a ogni riforma della scuola si scateni una polemica più ideologica che di merito, più di forma che di metodo, che sempre finisce per impantanarsi dentro criteri tanto astratti quanto poco utili alla causa. E cioè: cosa è necessario studiare per avere cittadini istruiti? Più latino, più Bibbia, più storia italica –sintetizzando la proposta del ministro Valditara – oppure, tornando a qualche riforma fa, più informatica, più inglese, più impresa (ricordate le “tre i” di morattiana memoria)?
Il punto
è che hanno tutti ra gione, e che semmai ad avere torto è la tentazione – questa sì, molto italica, a partire da Croce e da Gentile, che privilegiano le materie umanistiche a scapito di quelle scientifiche – di una scuola che aggiunge qualcosa per escludere qualcosa d’altro. Di volta in volta: più letteratura e meno tecnica, più scienza e meno latino e greco, quindi più storia italica e meno storia del mondo - a proposito, un consiglio di lettura: il piccolo capolavoro “Breve storia del mondo” di Gombrich, pensato per i bambini ma validissimo per gli adulti - oppure più inglese e meno italiano, e viceversa.Il sapere, quando è tale, non si fonda sull’utilità (“Con un bagaglio di sapere inutile si può fare tutto, col sapere utile si possono fare solo piccole cose”, scriveva Agnes Heller), è stratificazione e non esclusione, non è dicotomia tra scienza e conoscenze umanistiche, ma assomiglia semmai all’idea più ampia e alta di cultura politecnica, e cioè quella capacità di pensiero che abbraccia i punti cardinali dell’intelligenza umana, tanto preziosi in tempi in cui ci sentiamo minacciati dall’intelligenza artificiale. Vi chiedereste, di Albert Einstein, se fosse un fisico o un filosofo? E Leonardo da Vinci era un umanista o uno scienziato? E Pitagora un matematico o uno dei fondatori del pensiero occidentale? Il Sapere, appunto, non esclude: allarga, abbraccia, accoglie, dilata, contamina.
Così la matematica è fondamentale per immaginare (il concetto di infinito è matematico) e la lingua per ragionare. Lo ha detto giustamente il ministro Valditara parlando del latino, lo diceva Leonardo Sciascia parlando dell’italiano (“L’italiano non è l’italiano: è il ragionare”).
A proposito di latino, un mio vecchio insegnante tanto spiritoso quanto severo amava ripetere che il latino serve soprattutto per imparare a non fidarsi delle apparenze. Un giorno scrisse sulla lavagna: “Questae lavia delia sini”. Nessuno di noi malcapitati studenti riusciva a tradurre, e del resto era impossibile. Non era latino, era un gioco di parole: “Questa-è-la-via-degli-asini”. Mai sintesi fu più azzeccata.