Martedì 18 Marzo 2025
MICHELE BRAMBILLA
Editoriale e Commento

Il bullismo che continua con altri mezzi

Michele Brambilla

Quando succede qualcosa come quella successa l’altro giorno a Rimini, dove un ragazzo di 14 anni ha accoltellato un suo coetaneo in classe, un po’ tutti ci chiediamo: ma non è che queste cose sono sempre successe senza che finissero sui giornali? Non dico un accoltellamento in classe, che in effetti è un caso quasi senza precedenti, ma le botte fra i ragazzini, le bande, il bullo e i bullizzati? Sì, queste cose sono sempre successe, ma adesso l’esibizione del male fatto, la gogna e la vergogna sono amplificate dai social, come nel caso della ragazzina di Firenze, fotografata di spalle e e messa alla berlina su WhatsApp.

Così ha scritto ieri su questo giornale Alessandro Milan, e ha perfettamente ragione. C’è però, forse, anche un altro aspetto. Proviamo ad andare indietro nel tempo fino a quando eravamo bambini (gli anni Sessanta, per quanto mi riguarda). A scuola, in ogni classe c’era un bullo, anzi il bullo. Il prepotente che dominava, umiliava; il piccolo tiranno di cui tutti avevano paura. E il pomeriggio, in strada, le bande giravano, eccome. E ci si menava, specie in periferia, molto più di adesso, perché ci menavamo tutti, non solo i figli dei delinquenti o dei disperati. In una struggente canzone in cui ricorda la sua infanzia nelle periferie di Milano, e che s’intitola El me indiriss, Enzo Jannacci a un certo punto racconta: "Tornavi a cà la sera, e la mia mamma La me nettava el nas tutt spurch’de sang’ Perché la legge l’era de dài via Ma l’era anca quella de ciapànn". Tornavo a casa la sera e mia mamma mi puliva il naso sporco di sangue, perché la legge era di darle, ma anche di prenderle. Di questa legge c’era memoria in tutti noi, scolpita nel Dna: la vita è un combattimento, fin dai tempi delle caverne.

Ha ragione il Papa a dire che la guerra è il contrario della creazione, ma purtroppo nella natura dell’uomo, accanto alla libertà, c’è anche l’egoismo, il desiderio e a volte il bisogno di prevalere. Quando tornavamo a casa la sera con il naso sporco di sangue, i nostri genitori non cercavano i picchiatori per denunciarli e non telefonavano ai giornali, perché ogni generazione aveva conosciuto una guerra.

Noi siamo la prima a non averla conosciuta, e per fortuna, anche se forse siamo meno robusti. Ma una guerra c’è sempre. E, parafrasando von Clausewitz, i social sono il proseguimento del bullismo con altri mezzi, più cruenti, più schifosi delle botte in periferia.