Roma, 26 novembre 2023 – Questo 25 novembre non è stato come tutti gli altri. Qualcosa è cambiato, qualcosa di così potente che è difficile da cogliere nella sua essenza: che cos’è stato quel gridare di piazza, che cosa c’era dietro tutti quegli applausi e lacrime e parole che ieri hanno invaso le strade d’Italia? Qualcosa è cambiato, in questo 25 novembre, ed è cambiato dopo la morte di Giulia Cecchettin, il femminicidio numero 105 dall’inizio dell’anno. Non l’ultimo. Non ancora. Mi sono chiesta che cosa, in quella storia drammatica e feroce, avesse in sé la forza per insufflare nei nostri corpi e nelle nostre menti il desiderio del nuovo. Perché proprio adesso? Perché proprio con Giulia, grazie a Giulia? Di sicuro, le parole di sua sorella Elena sono state determinanti: inedite, e dunque dirompenti. Perché le vittime e i sopravvissuti si portano sempre addosso il marchio della sofferenza, della vergogna, e anche della colpa.
Le vittime e i sopravvissuti, i loro cari, si chiudono quasi sempre dentro un dolore muto, che consuma senza avere le parole necessarie a esprimerlo.
Elena Cecchettin no: Elena ha trasformato il suo dolore in un atto politico, Elena si è arrabbiata. E con la sua rabbia ha risvegliato in tutte noi e in tutti noi la rabbia.
Anche la rabbia può essere buona. Può essere sana. La rabbia sana non è mai violenta. Anzi: la rabbia delle piazze di ieri è stata una rabbia contro la violenza, la rabbia di chi risponde alla violenza cieca con la non violenza. È una rabbia bella, perché non si vergogna, non ha paura, non è remissiva. È una rabbia morale, dignitosa, forte, coraggiosa. Che alla brutalità contrappone la compostezza della ragione, l’intelligenza, la cultura, la solidità del pensiero.
E per questo è una rabbia che riguarda tutti: contagia tutti. Uomini e donne, politici e giornalisti, vecchi e giovani.
È una rabbia che nel dire no alla violenza chiede una grande rivoluzione culturale, e le grandi rivoluzioni culturali si compiono facendo ciascuno la propria parte: si compiono con le leggi, ma anche con la responsabilità personale. Per questo mi ha stupito - e sì, mi ha anche un po’ scoraggiato - la fretta di quanti e quante, negli ultimi giorni, si sono voluti tirare fuori dalla questione: io non c’entro nulla, io sono incolpevole, io vado bene così come sono, di che mi accusate? Tanti lo hanno detto o lo hanno almeno pensato: uomini e donne. Non capendo che tirarsi fuori è impossibile: i grandi cambiamenti attraversano la società, la invadono perché ne pretendono la mutazione.
Sarà difficile, sarà faticosa, sarà dolorosa. È inevitabile. Ma non potrà più non esserci. Come cantava De André: siamo per sempre coinvolti.