Le ragioni dichiarate sono nobili – gli impegni istituzionali, la necessità di non illudere l’elettorato con candidature civetta, destinate cioè a decadere non appena chiuse le urne – ma la decisione è come sempre anche tattica. E sulla tattica si giocano pure i Fratelli d’Italia e del Pd.
La verità è che quando il capo – o la capa, come in questi casi – si candida solo per trascinare il proprio elettorato sta, indubbiamente, forzando i fragili equilibri interni dei partiti o delle coalizioni.
Lo ha ricordato giorni fa Romano Prodi a Schlein: "Le finte candidature sviliscono il voto. Al Pd servono capilista operativi". Come dargli torto? Eppure in questo momento per Elly la tentazione del voto diventa più che mai una questione importante, e seria, per sancire una leadership finora stentatamente riconosciuta dal suo stesso partito. Metterci la faccia e il corpo, insomma, le consentirebbe di provare a capitalizzare un po’ di quella solidità e di quel consenso che continuano a sfuggirle di mano.
Anche per Meloni la corsa alle Europee avrebbe dei risvolti tatticamente importanti, soprattutto come risposta alle frizioni con gli alleati di governo. Chi, anche nel suo partito, sostiene che "umiliarli troppo alle urne non fa bene alla tenuta della coalizione", ha ragione solo in parte: del resto si sa che quella della riconoscenza è una categoria da sempre estranea alla politica.
Dunque, la posta in gioco è chiara e rilevante, tanto per Meloni quanto per Schlein. Ma su un punto hanno ragione coloro che scoraggiano l’interventismo delle leader: le elezioni europee, soprattutto in questo anno di incertezze e stravolgimenti, sono un affare maledettamente troppo serio per piegarlo solo a calcoli di interesse. Perché la tattica in politica può andare bene, ma di troppa tattica a volte si muore.