Se Israele e Iran dovessero chiuderla qui, beh, si potrebbe dire che non tutte le guerre vengono per nuocere. Soprattutto se guerre non sono, e per fortuna non diventano. Se restano un affondo e una risposta che per la diplomazia fa uno a uno, anche se nella pratica il risultato esatto sarebbe due a zero per Tel Aviv: ucciso il generale dei pasdaran che forniva di armi Hezbollah, annientato l’altra notte il 99% delle bombe di Teheran. Un assalto che ha infuocato i cieli del Medio Oriente, che la potenza bellica dello stato ebraico e dell’Occidente ha però trasformato in un pauroso ma incruento gioco pirotecnico. Sempre che, dicevamo, l’incendio sia considerato ufficialmente estinto. Come si è affrettata a dire subito Teheran, come ha "ordinato" Biden, e infine come ha auspicato ieri il G7 di emergenza convocato da Giorgia Meloni con un chiaro no alla escalation. E il fatto che il governo Netanyahu dichiari di non voler rispondere per ora all’attacco, senza escludere di "esigere un prezzo nel modo e momento adatto", si offre a due letture. Primo, che sia l’inevitabile ruggito di chi si è sentito al sicuro solo quando l’ultimo drone è stato abbattuto. E che a caldo non abbia voglia e convenienza di dichiarare chiusa la partita. Forma più che sostanza, però. Secondo. Che sia l’annuncio della volontà di voler mordere ancora l’Iran, finanziatore e ispiratore di Hamas e del terrorismo islamico. Strada non certo condivisa dagli alleati che si sono alzati in volo per difendere Israele. Per questo è fondato pensare che sia valida la prima ipotesi. E che il raffreddamento del fronte iraniano possa consentire alla diplomazia di concentrarsi di nuovo su Gaza. Su una tregua sempre più difficile se legata solo allo scambio prigionieri-ostaggi. Perché i primi sono vivi nella carceri israeliane. I secondi, forse, sono quasi tutti morti. Ma anche così, Israele li vuole riportare a casa.
Editoriale e CommentoPartita chiusa? Ora spazio alla diplomazia