Firenze, 17 febbraio 2024 – Com’è stato possibile tutto questo? Ti finiscono le parole in bocca mentre l’inutilità di ogni denuncia, di ogni condanna, di ogni sacrosanto “mai più” riecheggia vuota: tragedia dopo tragedia, il copione è sempre lo stesso, e sempre lo stesso è il finale. Perché quelli di Firenze non sono altro che gli ennesimi morti sul lavoro di una conta infinita: 1.041 in Italia nel 2023 appena concluso, tre al giorno la media. E quando con le lacrime e la rabbia dei reduci, dei sopravvissuti, andiamo finalmente – e sempre troppo tardi – a guardare dentro a quei cantieri, a quelle fabbriche, a quei magazzini diventati tombe, scopriamo la stessa inaccettabile verità: regole disattese, contratti inadeguati, codici non rispettati.
Non è quasi mai il caso, non è quasi mai il destino: le morti sul lavoro ben di rado sono “morti bianche”, come poeticamente e ipocritamente qualcuno le continua a chiamare. Sono invece troppo spesso il frutto di furberie, nella migliore delle ipotesi. Di lassismo, di incuria, di illegalità.
È, questo, anche il caso Firenze? Presto per dirlo: le responsabilità devono naturalmente ancora essere chiarite, le cause comprese, gli eventuali errori umani accertati. Servirà tempo.
Di sicuro, stavolta, non c’è il cantiere seminascosto in periferia, la piccola ditta, la conduzione familiare che diluisce la responsabilità di mancanze e disattenzioni, o ce le fa sembrare se non meno odiose almeno più comprensibili. No, qui la tragedia collettiva di quella vergogna nazionale chiamata “morti sul lavoro” è andata in scena pubblicamente e ostentatamente,come a teatro.
Pieno giorno, dentro uno dei cantieri più osservati degli ultimi anni: il crollo, il boato, e poi il tremito che ha scosso le fondamenta di un intero quartiere poco prima delle nove di ieri mattina. Una strage pubblica, sotto gli occhi attoniti di una città intera, e per questo destinata a fare tanto più rumore, a rappresentare un salto di qualità nella fredda conta quotidiana dei morti.
Eppure, finito il clamore ci ricorderemo di loro, di quegli uomini ancora – mentre scrivo – quasi tutti senza nome, senza volto, senza età, quattro su cinque ancora, mentre scrivo, nascosti dal cemento? Ci ricorderemo di loro quando le macerie saranno spostate, l’inchiesta chiusa, la voragine colmata? O invece li dimenticheremo, come ci siamo dimenticati di tutti, o quasi, numeri di statistiche da rispolverare puntualmente all’ennesima strage? Perché se il lavoro è il fondamento che fa dell’uomo un uomo, allora uccidere un uomo sul lavoro, di lavoro, per il lavoro, significa togliergli proprio tutto: la vita e anche la dignità.