Non c’è oppressione senza silenzio, non c’è libertà senza parola. Per questo il giornalismo è sempre, da sempre, un atto di resistenza, ben prima e ben più che una semplice professione. Lo teorizzava, con parole appassionate, Willy Brandt, l’uomo che, perseguitato dal nazismo, costretto per anni all’esilio e all’oblio, tanto fece nel secolo scorso per unificare la sua Germania divisa dalla guerra e dai tragici effetti che ne seguirono. Una forma di resistenza, dunque, che come tale prevede sempre l’assunzione di un rischio: umano, personale, professionale. Quando ne dubitiamo, quando lo dimentichiamo - e lo fanno i lettori, certo, ma anche gli stessi giornalisti, ahimè più spesso di quanto si creda - è alle storie come quella di Cecilia Sala che dobbiamo pensare, col dolore di chi condivide l’angoscia e la rabbia per l’orrenda prigionia, con l’orgoglio di chi sa che la forza della parola è tuttora la più temuta, potente, pericolosa per ogni regime costretto ad autoalimentarsi. A lei il pensiero, dunque, in queste ore di ansia e di attesa per le sorti di una delle più talentuose, e giovani, reporter del nostro Paese. Una reporter capace di unire il potenziale delle nuove tecnologie all’unica strada – una strada prima di tutto etica, una strada dell’anima – che il mestiere imponga, da sempre: andare, vedere, toccare. E solo allora raccontare.
Il cronista, dai tempi del Milione di Marco Polo, non ha che questo: i suoi occhi, la sua penna (“e vi racconteremo ciò che è stato visto con i nostri stessi occhi, e vi diremo, dichiarandolo, ciò che non abbiamo visto, ma ascoltato da testimoni attendibili e sinceri”). Sala, che a 29 anni ha già percorso i più tormentati fronti di guerra calda del nostro tempo, dall’Ucraina a Israele, il 19 dicembre è stata arrestata dal regime di Teheran, dove si era spinta per raccogliere il materiale dei suoi seguitissimi podcast realizzati per Chora Media. Detenuta in una cella di isolamento nel carcere di Evin, contro di lei non esiste ancora una chiara accusa: anche questo non ci deve stupire. Il giornalismo stesso, come atto di parola e dunque di resistenza, diventa una minaccia, e perciò un crimine, oltre che il fin troppo facile oggetto di una possibile e odiosa rappresaglia: voi italiani avete in custodia uno dei nostri? E noi incateniamo uno dei vostri. Facile, tanto più se l’incatenato è giornalista e, soprattutto, donna.
La resistenza delle donne di Teheran, che Sala non a caso racconta, è pure questa fatta di parole. E di canti, di capelli liberi, di volti: la resistenza dell’espressione contro l’oppressione. In tempi fragili come lo sono i nostri, il diritto all’espressione è l’architrave della libertà che attraversa ogni conquista: in guerra come in pace, di fronte ai dittatori come ai potenti tecnologici e ai politici intolleranti a critiche e scomode verità. E il giornalismo, quando sa pienamente incarnare e riconoscere se stesso, può e deve occupare lo spazio di questo rischio, di questa responsabilità, di questa bellezza. A ciascuno di noi, il compito di difenderlo.