Giovedì 21 Novembre 2024
AGNESE PINI
Editoriale e Commento

Riprendiamo a chiamarla con il suo nome

Questa è schiavitù, solo chiamandola col suo nome si può raccontare la morte di Satnam Singh

Braccianti agricoli

Braccianti agricoli

Chiamiamola col suo nome, senza morbidezze, senza infingimenti. Chiamiamola col suo nome e non accettiamone alcun altro: schiavitù. Sforziamoci di prendere confidenza con questa parola, così attuale e così vera, pura cronaca. Non enfatizzata, non rubata per smania di retorica a un romanzo ottocentesco. Non è la campagna dello zio Tom, è quella dell’Agro Pontino ma potrebbe essere Puglia, Calabria, Campania, Toscana, Emilia-Romagna. Non è il 1852, è il 2024. Ed è schiavitù. Solo così si può raccontare la fine miserabile di un operaio agricolo col braccio strappato via da un rullo avvolgi cavi in un campo di meloni: Satnam Singh. Questo nome ormai lo conoscete tutti, avete letto e riletto la sua storia: è il nome di un uomo ed è diventato il nome della nostra vergogna.  

Satnam Singh: il suo braccio staccato messo in una cassetta di plastica, abbandonato davanti alla baracca di lamiera in cui dormiva. Satnam Singh, un indiano Sikh senza permesso di soggiorno, 31 anni, una moglie, è morto così: da schiavo. In Italia - lo abbiamo scritto su questo giornale due giorni fa - sono 3 milioni i lavoratori irregolari, e almeno duecentomila quelli come Satnam, nelle nostre campagne. Guadagnano venti euro al giorno, i più fortunati 35, e arrivano a lavorare anche 16 ore. Alcuni, per resistere allo sfinimento, sono costretti a drogarsi: oppiacei e antispastici. Quanto vale il lavoro nel nostro Paese? Sempre meno. Ce ne accorgiamo nella leggerezza con cui ne tolleriamo le morti - la solita macabra statistica, tre al giorno - e le stragi che sempre più frequentemente, e brevemente, puntellano le cronache. I cinque operai stritolati in un cantiere a Firenze, i sette sepolti vivi in una centrale idroelettrica a Bargi, altri cinque soffocati in una fogna a Palermo: ve li ricordate? Ebbene: quanto ci hanno coinvolto, commosso, scandalizzato, quei morti? Poco. Il tempo fragile del cordoglio e il tempo inconsistente dell’indignazione si restringono inesorabilmente. Ormai ascoltiamo con pigrizia perfino quei "mai più" di prammatica, rispolverati senza convinzione a ogni nuova vittima che faccia appena più rumore delle altre. Perché tutto ci fa meno impressione di un tempo, perché anche l’orrore può diventare abitudine, e perché la soglia di tolleranza psicologica aumenta: quello che ci sembrava impossibile fino a quindici anni fa - pensate ai rider, pensate a questi schiavi moderni delle nostre campagne e dei nostri cantieri - oggi ci sembra non dico tollerabile, ma almeno accettabile. A forza di svuotare il lavoro di valore, di peso, di significato - e quindi di tutele, di forza economica, di blindature contrattuali - ci sembra plausibile che si viva (e che si muoia) come Satnam Singh. Invisibili, miserabili, soli.