La rivoluzione attuata dal colosso Amazon in tema di resi dei prodotti elettronici (riduzione dei giorni disponibili da 30 a 14), in essere da marzo 2024, e ufficialmente voluta per ridurre le emissioni e i costi per spostare la merce che si vuole rendere, potrebbe presto essere seguita da altri big dell'e-commerce, per contrastare un fenomeno sempre più preoccupante per le aziende produttrici: il wardrobing.
Cos'è il wardrobing
Ma di cosa si tratta? Chi lavora nel settore dell'e-commerce, o in un retail store della moda, sa bene quanto sia importante per il cliente poter rendere un prodotto, qualora si cambiasse idea o si capisse che non era ciò che si stava cercando.
Se nell'elettronica è una garanzia di eventuali difetti del prodotto, nell'abbigliamento è divenuta una pratica scorretta, in quanto spesso è decisa dal cliente ancor prima di comprare quel capo. Si acquista un vestito di marca, costoso e alla moda, lo si indossa in una singola occasione, e poi lo si rende. Una sorta di affitto gratuito, molto in voga soprattutto nella fascia d'età 25-34, e che i social hanno reso ormai virale.
Scorretto, ma non illegale
Chiariamo subito un punto: il wardrobing non infrange alcuna legge, almeno se il capo viene reso in condizioni pari al nuovo, dunque non macchiato, danneggiato o comunque sfruttato a tal punto da renderlo liso o non pari al nuovo.
Resta però un tema di morale: acquistarlo già con questa idea è senza dubbio scorretto, sia nei confronti dell'azienda produttrice, che del negozio che lo vende, e che dinanzi ad un reso avrà una serie di obblighi anche fiscali da ottemperare. La fascia d'età che lo pratica di più è quella fra i 25 e i 34 anni, infatti si stima che il 10% degli acquisti fatti da questi clienti diventerà poi un reso.
Perché si pratica il wardrobing
Ma perché avviene questa pratica, un po' triste e un po' furbacchiona? Da un lato sembra una di quelle pratiche da “vorrei ma non posso”, cioè da chi vorrebbe permettersi dei capi costosi, non può comprarli, e allora prova l'emozione di indossarli, anche se una sola volta, per poi restituirli. Solitamente ciò avviene per prendere parte a serate di gala, o per farne sfoggio sui social, oppure ancora per creare un hype sui propri canali, e avere una crescita di interazioni o di followers. Quello che però non considerano questi clienti, o di cui poco gli importa, è che la trafila per un reso, per una nuova etichettatura, per il controllo qualità del prodotto e per la re-immissione sul mercato può avere tempi lunghi, con la conseguenza che quel capo potrebbe restare invenduto.
Come si difendono gli esercenti
Una delle prime pratiche poste in essere dagli esercenti, in particolar modo dalle grosse catene, è quella di creare una black list, così da individuare i clienti dediti a tale pratica, e non permettere loro di farlo più di una volta l'anno. Inoltre si tende a rendere sempre più difficile il reso, rifiutandolo nei casi in cui manchino, oltre allo scontrino, anche la confezione originale, o se l'etichetta risulti tagliata.
In tal senso, è in fase sperimentale una nuova etichetta, molto difficile da rimuovere, e che una volta tolta renderà il capo non più restituibile, come indicato da una clausola che verrà inserita all'atto della vendita, e che ovviamente varrà solo per capi di fascia alta, essendo tutto l'iter costoso e poco pratico, almeno allo stato attuale.
Qualche dato
Una ricerca effettuata da Mintel ha rivelato che un consumatore su cinque nel Regno Unito è dedito a questa pratica, mentre un sondaggio effettuato da ReBound sottolinea come il 21% ha almeno una volta effettuato un reso, per poter usare capi troppo costosi e sfoggiarli sui social almeno una volta.
Nel 2021, in Germania sono stati 44 milioni i capi d'abbigliamento resi, con un'incidenza del 20%. Già nel 2013 alcuni analisti di mercato negli Stati Uniti avevano evidenziato questa nascente nuova pratica, e lo studio di VoucherCodes.co.uk proprio del 2013 sottolineava che la maggior parte delle persone a farlo erano donne.
Una delle cose che frenano i clienti è l'imbarazzo, ecco perché sono i siti di e-commerce i più colpiti dal wardrobing. Fra le nuove strategie a contrasto, da segnalare alcune campagne pubblicitarie che ironizzano sul wardrobing, cercando in questo modo di cavalcarne l'onda e di creare un rapporto di maggiore fiducia col cliente.