Il Leone si fidanza con i francesi. E si prepara alle nozze per dar vita a un colosso europeo del risparmio gestito da quasi duemila miliardi di euro. Il via libera al progetto di aggregazione tra Generali Investments Holding (Gih) e Natixis è arrivato ieri sera dal cda della compagnia italiana, nonostante tre voti contrari all’interno del board e la preoccupazione espressa dal collegio sindacale sui tempi troppo stretti dell’operazione. L’accordo viene presentato oggi agli investitori dall’ad di Generali, Philippe Donnet, e da Nicolas Namias, omologo in Bpce, il gruppo transalpino delle banche popolari che controlla Natixis.
La joint-venture sarà tra i primi dieci asset manager a livello globale e seconda in Europa solo ad Amundi. In essa confluiranno gli oltre 1.200 miliardi di masse in gestione di Natixis Investment Managers e i 650 miliardi di Gih, integrati da una parte della raccolta netta che il Leone sviluppa annualmente. La governance sarà paritetica, con quote del 50% in capo a Natixis e Gih (83,25% Generali e 16,75% Cathay), mentre per cinque anni la guida sarà affidata a Woody Bradford, nominato ceo di Gih dopo l’acquisizione nel 2024 di Conning, con un mandato rinnovabile per un altro quinquennio al raggiungimento di determinati target industriali.
L’intesa, non vincolante, richiederà alcuni mesi di lavoro per riunire sotto un unico ombrello le 16 società di gestione di Natixis e le 14 delle Generali e diventare definitiva. La logica industriale, per il management, sta nelle economie di scala in grado di generare costi più ridotti, sinergie, miglioramento dei rendimenti e delle opportunità di investimento per i clienti, oltre a una maggiore capacità di attrarre masse da altri investitori. Generali e Natixis manterrebbero il controllo sui premi e il risparmio conferito, definendo le strategie e le politiche di investimento sulla base di mandati circoscritti.
L’operazione, sulla quale pende la spada di Damocle del ‘golden power’ essendo il contraente un soggetto estero, ha scatenato le polemiche tra i due soci rilevanti – Delfin con il 9,77% e Caltagirone con il 6,23% – e il management, espressione di Mediobanca, che ha il 13,13% del Leone. Quest’ultima, a sua volta, è partecipata da Delfin con il 19,81% e dallo stesso Caltagirone al 7,76%.
Motivo del contendere, la diversa visione sul rischio che la compagnia possa perdere la presa su decine e decine di miliardi di euro di risparmio italiano, dirottato lontano dal nostro Paese, dalla sua economia e dal suo debito pubblico. A ciò si aggiungono le perplessità sull’effettiva pariteticità della governance, sull’assenza di patti parasociali che offrano vie d’uscita, sulla competenza dell’assemblea in merito a un’operazione di cui si può discutere la natura quasi ‘trasformativa’.
Già nella lunga seduta di domenica il comitato investimenti non si era espresso in modo unanime, con il parere contrario di Stefano Marsaglia, espressione della lista Caltagirone, rispetto al via libera degli altri cinque membri.