Le nostre società si dibattono in una “policrisi” sanitaria, geopolitica, ambientale ed economica. Non è il momento delle ideologie ma delle soluzioni tecnologiche, nessuna esclusa, più adatte alla realtà di ogni Paese
Per anni l’esempio green dell’Europa ha fatto scuola, dando l’impressione di poter orientare ai propri dettami anche il resto del mondo. Poi qualcosa si è inceppato: un concatenamento di crisi, una “policrisi” prima sanitaria, poi geopolitica, ambientale ed economica ha reso tutto più complesso, togliendo spinta a una transizione energetica che il solo mercato – complicato da protezionismi e tassi d’interesse che inibiscono gli investimenti – fatica a sostenere. E mentre il conflitto fra Israele e Hamas si è già mangiato le cronache di quello russo-ucraino, tuttora in corso, secondo i sondaggi Ue gli europei che credono ancora all’equità della svolta ecologica non arrivano alla metà della popolazione e assistono al ritorno del carbone, il fossile più inquinante, di cui nel 2022 sono state consumate nel mondo – cifra record – 8,3 miliardi di tonnellate. Scarseggia, invece, la risorsa di cui più avremmo bisogno, cioè il tempo, che in occasione di ogni COP è consegnato a clessidre via via più inclementi.
Come se ne esce? Occorre fiducia: i passi in avanti dalla COP di Parigi
Intanto con un po’ più di fiducia: per fine secolo abbiamo recuperato 1-1,5 gradi sulla temperatura prevista nel 2015 (+3-4 gradi). Non basta, assolutamente, ma non dimentichiamo che nel frattempo abbiamo quadruplicato la capacità di generazione solare, raggiungendo oltre 1000GW installati e secondo la EIA (Energy International Agency) la porteremo a 5000-6000 GW entro il 2030. I Paesi che oggi perseguono il Net Zero, inoltre, sono 101, mentre alla COP di Parigi ce n’era solo uno. Non solo: a fronte delle policy attuali, sempre secondo la EIA, il picco delle emissioni di CO2, cioè il momento a partire dal quale si comincerà – globalmente parlando – a emettere meno, è atteso nel 2025, mentre ai tempi di Parigi era proiettato oltre il 2040.
La transizione ha bisogno di pragmatismo: a ogni paese la sua ricetta
Oltre alla fiducia, poi, occorre il pragmatismo. Sulle tecnologie, per esempio, bisogna essere agnostici, senza precludersi alcunché, cattura della CO2 inclusa: bene dunque accelerare sulle rinnovabili, ma per la sua transizione energetica ogni Paese deve implementare – e aggiornare nel corso del tempo – la combinazione di soluzioni più adatta alle proprie caratteristiche industriali (industria pesante/industria leggera) e morfologiche (dalle quali si capirà, per esempio, se un impianto fotovoltaico o un parco eolico stia “meglio” in mare o sulla terra ferma). L’importante, in tutti i casi, è scongiurare percorsi di deindustrializzazione e relative crisi sociali.
Le regole del cambiamento: poche, chiare e tempestive
Le regole ci vogliono, sono anzi essenziali, ma i policy maker – che data l’impotenza del mercato hanno in mano le vere redini della transizione – devono disegnarle con lungimiranza, avendo cura che esse siano poche, chiare e tempestive, abbandonando cervellotiche soluzioni per cui i sistemi europei non sono ancora maturi.
Lavorare per un mercato del gas in equilibrio, che scoraggi lo sviluppo del carbone
E nel breve, se davvero si vuole frenare il ricorso al carbone, in attesa del pieno sviluppo delle rinnovabili bisogna tenere in equilibrio il mercato del gas (che ha un fattore emissivo inferiore della metà), infrastrutturandolo a dovere: se salta il bilanciamento fra domanda e offerta, infatti, si produce un innalzamento dei prezzi che – lo abbiamo visto – danneggia il tessuto produttivo, deprime i consumi e li sposta verso fonti energetiche più inquinanti, come – appunto – il carbone. Un equilibrato sistema del gas, in altre parole, può funzionare come un corridoio di sicurezza con cui poter riassorbire le crisi che si presenteranno ancora lungo il percorso di transizione energetica, e sui cui asset far viaggiare, in prospettiva, quote crescenti di molecole verdi, dal biometano all’idrogeno.
Ricucire le relazioni internazionali e consolidare la sicurezza energetica, come sta facendo l’Italia
In parallelo, poi, bisogna ricucire la trama delle relazioni internazionali, a cominciare da questa COP28, in una prospettiva “inclusiva”, anche verso Paesi e settori più complessi, sviluppando progetti concreti, che portino valore di lungo periodo a tutte le parti in causa, catalizzando così il fondamentale consenso delle popolazioni interessate. L’Italia – anche per conto dell’Europa – ci sta lavorando nel cuore stesso del Mediterraneo, coinvolgendone la sponda meridionale e impegnandosi in un rapido consolidamento delle infrastrutture del metano che sta faticosamente ricostruendo una sicurezza energetica in cui alcuni, forse, non speravano più. La diversificazione degli approvvigionamenti, i nuovi terminali di rigassificazione, il riempimento degli stoccaggi e l’avvio di progetti per l’incremento della capacità di trasporto via gasdotto sono davvero essenziali, in particolare per aiutare il Paese a stare in modo resiliente sul mercato dell’energia, contenendone la volatilità. Indirettamente, peraltro, tutto questo può contribuire a liberare risorse di cui il sistema potrà valersi anche per sostenere la stessa transizione energetica, un’impresa di cui tutti gli osservatori non mancano di rilevare l’elevata intensità di capitale.
Al disfattismo di chi pensa che ormai non ci sia più nulla da fare, dunque, vale la pena di rispondere con il coraggio della ragione. Perché il futuro, quello di tutti, non è un sogno. È un compito.
* Amministratore delegato di Snam