Roma, 12 gennaio 2023 - Nel governo, ma anche nei sindacati e nelle associazioni di impresa, si fa sempre più pressante l’esigenza di mettere mano alla bomba dei salari prima che esploda. Ne ha parlato a più riprese la stessa Giorgia Meloni con i ministri dell’Economia e del Lavoro e con gli interlocutori più o meno vicini delle parti sociali. E non è da escludere che a stretto giro la premier avvii un vero tavolo di trattativa per arrivare a un accordo triangolare, sul modello Amato-Ciampi del ’93 (che qualcuno già chiama ‘Protocollo Meloni’), che metta in fila una serie di misure e di interventi dei quali ciascuno dei protagonisti della partita dovrà farsi carico. Vediamo, dunque, quali potrebbero essere le ipotesi in campo e le leve utilizzabili per far aumentare le retribuzioni dei lavoratori dipendenti.
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Recuperare nei contratti il salario perduto
Il primo e più immediato terreno di azione è quello che riguarda la spinta al rinnovo dei contratti collettivi di lavoro scaduti. Sono circa 6,8 milioni su 12,8 i lavoratori del settore privato che hanno un contratto scaduto al 31 dicembre scorso. Nel solo terziario, commercio, turismo e ristorazione, sono 3 milioni i lavoratori che aspettano da anni l’adeguamento del salario. Dunque, la prima operazione della premier è il pressing sulle parti perché rinnovino gli accordi bloccati. Il problema è che con l’attuale sistema, anche il rinnovo potrebbe portare ben poco nelle tasche, perché il meccanismo vigente non considera gli aumenti dell’inflazione importata, come è quella legata ai prodotti energetici. Da qui la sollecitazione, di Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri, ma anche di più di un esperto, a prevedere, come già accade per i metalmeccanici, soluzioni di recupero dell’inflazione ex post, rivedendo il parametro della cosiddetta Ipca.
Detassare gli aumenti contrattuali
Per favorire i rinnovi, ma anche per fare in modo che in busta paga finisca un netto più elevato, il governo, come chiedono i vertici delle imprese e del sindacato, a cominciare da Luigi Sbarra, dovrebbe introdurre la detassazione degli incrementi retributivi contrattati nei rinnovi. Si tratterebbe, in fondo, di una sorta di flat tax per il lavoro dipendente, della quale vi è traccia anche nel programma elettorale del centrodestra. L’effetto sarebbe anche quello di ridurre il divario rispetto alla flat tax prevista per autonomi e Partite Iva.
Sostenere la contrattazione aziendale
L’altra leva per far crescere gli stipendi è quella che passa dalla contrattazione aziendale. E in questo senso una forma di detassazione esiste anche oggi, ma è limitata ai premi di produttività, al welfare, ai risultati, mentre il passo ulteriore dovrebbe essere quello di estendere la soluzione incentivante a tutti gli aumenti. Ma anche in questa versione il limite dell’operazione sarebbe costituito dalla limitazione del raggio di azione alle imprese e ai gruppi più strutturati. E, dunque, servirebbe l’estensione di questa contrattazione anche alle piccole e medie imprese attraverso formule che spingano gli stessi datori di lavoro a aderire. Con il corollario, richiesto a gran voce dai sindacati più rappresentativi, di limitare o eliminare i contratti collettivi "pirata".
Tagliare il cunero fiscale
Ultimo, ma non ultimo, è il fronte sempre aperto del taglio del cuneo fiscale e contributivo, ovvero della differenza tra il costo del lavoro e il netto che finisce in busta paga. L’operazione è stata più volte tentata e più volte avviata e anche nella manovra c’è una sforbiciata di 2-3 punti fino ai redditi lordi di 25 o 35 mila euro l’anno. Il problema è che si tratta di un taglio annuale, non duraturo, e limitato. Da qui la richiesta pressante che vede uniti i vertici di Cgil, Cisl e Uil e Confindustria di una riduzione strutturale di almeno 5 punti. Peccato, però che per farla servano almeno 16 miliardi di euro. Una cifra che potrebbe, però, essere recuperata nell’ambito della riforma fiscale complessiva alla quale intende mettere mano a breve il goevrno: solo che si tratterà di capire a quel punto chi pagherà.