Roma, 25 luglio 2023 – La definizione che gli hanno attribuito più spesso è stata quella di ‘leader visionario e divisivo’, perché le sue scelte – mai scontate e, non di rado, drastiche – riuscivano, al contempo, a galvanizzare gli investitori e ad attirargli pesanti accuse. Era senza dubbio un leader Sergio Marchionne, il manager italiano noto a livello internazionale per aver guidato la Fiat per quattordici anni: sono gli anni in cui il gruppo è passato da azienda italiana destinata al declino a sesta società automobilistica al mondo. “Mentre cercate la vostra strada, tenete a mente chi volete diventare. Pensate a quale impronta volete lasciare, a quale differenza volete fare. Rimanete ambiziosi nei vostri obiettivi, perché rassegnarsi a una vita mediocre non vale mai la pena”. Con queste parole lo stesso Marchionne si rivolgeva agli studenti dell’università di Trento, in una lectio magistralis del 2 ottobre 2017. Una manciata di mesi più tardi, il 25 luglio 2018, a 66 anni, il numero uno del gruppo Fca sarebbe morto a Zurigo per le complicanze di una grave malattia.
L’ingresso in Fiat
Marchionne entra a far parte del consiglio di amministrazione del Lingotto nel 2003, su designazione di Umberto Agnelli. In seguito alla morte di quest’ultimo, e dopo le dimissioni dell'amministratore delegato Giuseppe Morchio (che aveva lasciato l'azienda dopo il rifiuto della famiglia Agnelli di affidargli anche la carica di presidente), Sergio Marchionne viene nominato, dal 1º giugno 2004, amministratore delegato della Fiat. Nel 2005 assume anche la guida dell'allora Fiat Auto (in seguito denominata Fiat group automobiles). Dà inizio così a quella ‘rivoluzione silenziosa’ del modello organizzativo del gruppo, cominciata con l’accantonamento del progetto relativo al polo del lusso e la restituzione dell’autonomia commerciale ai vari marchi. Durante la sua gestione, il gruppo lancia nuovi modelli, tra cui l'Alfa 159, la nuova Fiat Bravo, la Fiat nuova 500, la Grande Punto, che sarebbe stata l'auto più venduta in Italia nel 2006 e nel 2007.
L’acquisizione di Chrysler
Nel momento in cui il mondo intero è alle prese con le conseguenze della grave crisi economico-finanziaria dei mutui subprime - che travolge, fra l’altro, proprio il settore automobilistico - Marchionne decide di dare l’assalto al mercato. Proprio all’inizio del 2009, infatti, cominciano i tentativi di acquisire, attraverso Fiat, altri importanti gruppi automobilistici europei e non, tra cui Chrysler. Risalgono alla primavera del 2009, infatti, le lunghe e travagliate trattative legate all'acquisizione di Chrysler, sia con i sindacati che con il governo degli Stati Uniti. La Chrysler, controllata negli ultimi tempi dalla Daimler - che ha perso in quell'acquisizione oltre 60 miliardi di dollari - è fallita, ha gli stabilimenti quasi tutti chiusi e i 39.000 dipendenti a casa. Nei sobborghi di Detroit montano il malcontento e una pericolosa rabbia sociale. Al termine della trattativa con Barack Obama, da poco eletto presidente, si raggiunge un accordo che prevede l'acquisizione da parte del Lingotto del 20% delle azioni Chrysler, in cambio delle competenze e delle tecnologie torinesi. Nasce così il sesto gruppo automobilistico al mondo. Alcuni creditori di Chrysler cercano di bloccare, attraverso la Corte suprema degli Stati Uniti, la trattativa tra i due gruppi, ma falliscono nell’intento: il 10 giugno 2009 nasce la nuova Chrysler, di cui Fiat detiene il controllo manageriale e una quota iniziale del 20%. L’acquisizione del 100% delle azioni della casa automobilistica di Detroit viene completata fra il 2011 e il 2014, sempre sotto la guida del manager italo-canadese.
Il tentativo di assalto a General Motors
Durante i suoi quattordici anni al timone di Fiat, Marchionne conduce un’altra importante trattativa per l’acquisizione di Opel, azienda automobilistica europea (con ben quattro stabilimenti in Germania e i conti in rosso) controllata dal gruppo General Motors, anch'esso in difficoltà economiche. Ma incontra la fiera opposizione dei sindacati tedeschi, che temono la perdita di posti di lavoro: la trattativa fallirà. Come fallirà anche, nel 2015, il tentativo di scalata ai vertici di General Motors, intrapreso con il sogno di dar vita al gruppo automobilistico più grande al mondo.
La rivoluzione compiuta da Marchionne e la sua eredità
Ambizioso e riservato, ossessionato dal lavoro e spinto dal desiderio costante di sfidare lo status quo in ogni ambito, Sergio Marchionne è una di quelle figure tali da non lasciare indifferenti. Ha riportato in vita il Lingotto e Chrysler, rimettendo così in piedi buona parte della filiera dell’automotive italiana e statunitense. Alla presidenza di Ferrari dal 2014 al 2018 (in sostituzione di Luca Cordero di Montezemolo), ha saputo trasformare il brand in un’icona capace di generare tuttora miliardi di profitti: solo qualche giorno fa, il magazine Forbes ha rilasciato la classifica delle scuderie di Formula 1 che valgono di più e, malgrado i risultati sportivi deludenti, la casa di Maranello è saldamente al primo posto, con un valore di circa 4 miliardi di dollari. Soprattutto, Marchionne ha scardinato il sistema ormai consunto delle relazioni industriali italiane, portando, di fatto, la Fiat fuori dall’Italia e da quelle logiche assistenzialistiche colpevoli di averla trascinata, prima del suo arrivo, sull’orlo del baratro. In pochi avrebbero scommesso, nel 2008, che Fiat sarebbe sopravvissuta alla crisi, sino a diventare protagonista in un comparto messo sotto assedio dalla trasformazione tecnologica. In pochissimi, inoltre, avrebbero immaginato che, vent’anni dopo lo spettro della nazionalizzazione e del controllo da parte delle banche creditrici, gli Agnelli sarebbero diventati i primi azionisti di un gruppo realmente globale, il più profittevole tra i produttori di massa.
"Meglio essere piccoli in un gruppo forte e internazionale che controllare una società in difficoltà, concentrata sul mercato domestico”, ebbe a dire il manager abruzzese. I fatti gli hanno dato ragione. Senza la fusione, con Chrysler prima e poi con Peugeot in Stellantis, Fiat avrebbe fatto, probabilmente, la fine di Alitalia, o di altri ex colossi nazionali tenuti in vita solo con iniezioni di capitale pubblico, senza alcuna possibilità di competere nel mercato globale. Le dinamiche sindacali, infine: il grande timore dei sindacati, in particolare della Fiom, era la perdita di centralità degli stabilimenti italiani, a seguito dell’assenza del governo italiano nell’azionariato del gruppo e della frammentazione della produzione nelle fabbriche all’estero. È stata proprio la sprovincializzazione, invece, la mossa vincente di Marchionne: a distanza di 5 anni, il gruppo Fca è diventato Stellantis, dei 14 marchi nessuno è stato chiuso (compreso Lancia, già condannato alla chiusura prima dell’era Marchionne) e uno degli stabilimenti Fiat in Molise, dove si producevano motori a combustione, dal 2026 produrrà batterie per auto elettriche. Il gruppo plasmato dal manager abruzzese è pronto ad affrontare la sfida epocale della transizione ecologica dell’automotive.