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Aprile: Milano capitale di arredamento e design con il Salone del Mobile
Milano, 5 aprile 2017 - Quando torni dal Salone del Mobile, edizione numero 56, nel giorno in cui tutti i mezzi pubblici di Milano hanno simpaticamente fatto sciopero per quattro ore, la gente è più sconvolta del solito, un po’ fa caldo e un po’ piove, un po’ vedi e un po’ sei in coda, un po’ sei stanco e un po’ commosso dai padiglioni-giostra (e anche qua e là perplesso), l’unica cosa che può consolarti on the way home dopo otto ore di girovagar “pallido e assorto” (chissà perché mi è venuto in mente Montale), sono le parole di un grande indagatore dell’animo umano, casualmente anche designer, meno casualmente filosofo e architetto. Ettore Sottsass. E non tanto perché quest’anno ricorre il centenario della nascita (ma non poteva fare come Gillo Dorfles, che di anni ne compie giusto tra una settimana 107?) quanto perché con la sua faccia ironica, a volte melanconica e ironica, a volte ironica e sorniona, Ettore il Grande ha sintetizzato così la figura del designer. Aperte virgolette: Un designer dovrebbe sapere che gli oggetti possono diventare lo strumento di un rito esistenziale. Chiuse le virgolette, tratto da Domus n. 869 di 13 anni fa.
Un rito esistenziale è anche questo pellegrinaggio laico che conduce 300mila persone a Milano ogni anno da 165 Paesi per quelli che sono i 1.400 eventi del Fuorisalone oltre che per visitare i padiglioni di Milanofiera. “I numeri pari sono migliori di quelli dispari”. “No, io il 3 e il 5 non me li perderei per nessuna ragione al mondo”. Febbre da padiglione, con Euroluce che è un mondo a parte e SaloneSatellite che dopo vent’anni non è il Salon des Refusés (emersi non considerati) ma l’anticamera del successo per emergenti.
Guardare, annusare ma soprattutto toccare. Ho messo le dita sulle lampade di Paola Navone per Fontana Arte, che hanno il vetro soffiato nelle griglie di metallo, prigioniero per sempre. Ho lasciato l’impronta dell’indice della mano desta (senza erre, è la più sveglia tra le due in dotazione) su un vetro sempre di Ettore il Grande per Venini, edizione numerata, bello come sono belle le sue creazioni elementari e i suoi colori. Ho passato la mano su sete e pelli e pietre e legni che vengono da migliaia di chilometri di distanza ma sono stati tagliati con rispetto ai valori della sostenibilità, senza disboscare l’Amazzonia per finire nelle dimore di azeri con molti zeri nel conto in banca (Visionnaire). Ho visto che la Ghost, la poltrona di vetro progettata da Cini Boeri, la mamma quasi 93enne dei famous Boeri (Stefano, Tito e Sandro), è sempre un’icona della Fiam e che i coreani la fotografano.
Ho visto, ho toccato, ho sentito, non ho visto molto altro che potrò solo immaginare o sognare di aver visto. Sedici padiglioni, 1.100 espositori, 145mila metri quadri di esposizione: paura solo a leggere i numeri. Ma sono felice perché gli oggetti sono diventati ancora una volta parte di un rito esistenziale, che magari non si liquefa come il sangue di San Gennaro ma porta molto bene all’Italia. E anche al mio spirito. Din don, Design.