Doveva essere il primo punto del tavolo tecnico sulla riforma previdenziale tra governo e parti sociali andato in scena ieri al Ministero del Lavoro, ma l’enorme nodo delle pensioni dei giovani (ipotizzabili a oltre 70 anni e con rendite da fame) e, dunque, del tragico destino pensionistico che attende i giovani di oggi, rimane senza neanche l’inizio di una possibile soluzione. Lo mettono in rilievo i sindacalisti di Cgil e Uil: "Incontro imbarazzante, nessuna indicazione". Ma verrebbe anche da dire: anche questa volta e ancora volta. Così come accade da oltre un decennio a questa parte, in tutte le occasioni nelle quali si è tentato di aprire il dossier.
Il rischio di pensioni povere
Il pericolo principale che corrono oggi i millennials, ma anche coloro che sono nati dagli anni Ottanta del secolo scorso e nei primi decenni del nuovo secolo, è quello di avere pensioni future di modestissima entità. Il rischio povertà previdenziale nasce dalle carriere lavorative precarie e discontinue che, con l’applicazione del sistema di calcolo contributivo, hanno l’effetto di produrre rendite al limite della sussistenza. Anche perché – e non è un dettaglio –, non c’è nelle regole del contributivo la cosiddetta integrazione al minimo, che scatta oggi quando la pensione calcolata sulla base dei contributi è sotto la soglia dell’assegno sociale dell’Inps.
Pensioni da fame
Un recente rapporto della Corte dei Conti elaborato su un campione di 56mila lavoratori, "rappresentativi di una popolazione di quarantenni assicurati pari a 486mila", mette in rilievo che il 28% dei giovani ha una retribuzione lorda sotto 20mila euro annui. Ma, salvo eccezioni (militari, forze dell’ordine e pubblico impiego), la somma dei contributi versati (i cosiddetti "zaini previdenziali" accumulati) "appare relativamente modesta e non supera i 100mila euro in 6 casi su 11". Con le donne messe peggio. Il risultato a oggi è di pensioni che, per oltre la metà dei giovani, non supereranno i 400-500 euro mensili attuali.
Pensioni a 70 e più anni
Il secondo, grave, pericolo che incombe sui giovani è che non potranno, in larga maggioranza, riuscire a conquistare la pensione se non a 70 anni di età e anche di più. Questo non solo per l’allungamento dell’età pensionabile collegata all’aumento della speranza di vita, ma anche perché le regole del metodo contributivo prevedono due parametri-capestro: il primo è quello che contempla che per anticipare la pensione di tre anni occorre che l’importo minimo sia pari a 2,8 volte la pensione minima, il secondo è che comunque si raggiunga almeno l’indice di 1,5 volte la stessa pensione minima anche per lasciare il lavoro a 70 anni e più.
Le proposte in campo
Da anni tutti i governi hanno aperto il dossier sulla pensione dei giovani, ma nessuno è arrivato oltre le proposte. Da qui la richiesta dei sindacati, contenuta nella piattaforma Cgil, Cisl e Uil, della "creazione di una pensione contributiva di garanzia, collegata ed eventualmente graduata rispetto al numero di anni di lavoro e di contributi versati, che consideri anche i periodi di disoccupazione, di formazione e di basse retribuzioni per poter assicurare a tutti un assegno pensionistico dignitoso, anche attraverso il ricorso alla fiscalità generale".
Una via che fino a oggi ha trovato una traduzione concreta solo nella soluzione avanzata qualche anno fa da Tommaso Nannicini, sottosegretario alla presidenza del governo Renzi, e dal compianto economista Stefano Patriarca: in sostanza, si prevedeva che coloro che sono interamente nel sistema contributivo e hanno avuto carriere discontinue, in futuro, avrebbero potuto contare su un assegno minimo di circa 700 euro mensili, in modo da minimizzare l’impatto negativo della carenza di contributi. Con l’eliminazione degli indici accennati.