Tra le proposte unitarie di Fiom, Fim e Uilm consegnate a Federmeccanica, quella che ha avuto più eco è certamente la richiesta di abbassamento del monte orario massimo previsto dal contratto collettivo nazionale dalle attuali 40 a 35 ore, senza contestuale perdita di stipendio. Non è stupefacente che una proposta di questo genere venga dal settore metalmeccanico, lo stesso nel quale si muovono molte delle aziende che già hanno condiviso accordi di questo genere a livello aziendale». A dare una prima lettura dell’iniziativa messa in campo dalle categorie delle tute blu di Cgil, Cisl e Uil è Emmanuele Massagli, professore alla Lumsa e presidente della Fondazione Tarantelli.
Le ipotesi e le soluzioni che vanno nella direzione della settimana di quattro giorni o riduzioni di orario, dunque, si moltiplicano.
"Non è di certo l’unico settore interessato a questi cambiamenti: la cosiddetta settimana corta è prevista nel contratto collettivo nazionale dei bancari già dagli anni Novanta (e recentemente è stata rilanciata dall’amministratore delegato di Banca Intesa, Carlo Messina) e qualcosa del genere è in sperimentazione anche nelle grandi imprese chimiche e farmaceutiche”.
Che cosa hanno in comune questi settori?
"Non tanto la natura manifatturiera della produzione (le banche sono, ovviamente, servizi), quanto il valore aggiunto generato in questo periodo e la possibilità di organizzare scientificamente il lavoro, in buona parte predeterminabile nei suoi picchi. In altre parole, la settimana corta è una soluzione certamente perseguibile (tanto che è già praticata) laddove la natura della “produzione” permette una gestione ordinata dei flussi e delle “linee” e vi è capienza economica per la sperimentazione”.
Con quali formule?
“Nei servizi, una soluzione può essere quello dell’ampliamento o della flessibilizzazione delle giornate di smartworking; nell’industria (ove questo non è possibile, per esempio nella produzione) la diminuzione di orario può diventare una sorta di “smartworking della manifattura”, una innovazione che va nella stessa direzione: concedere maggiore spazio alla vita personale dei lavoratori accogliendo una crescente richiesta, soprattutto dei più giovani, e quindi sfruttando questa evoluzione organizzativa anche in chiave di attrazione e mantenimento del personale più valido”.
La via dei metalmeccanici, insomma, è quella giusta?
"E’ certamente da osservare con interesse questa proposta. Non dimentichiamoci, però, che, una volta ancora, questa stessa proposta segnala la costante polarizzazione del lavoro che da tempo monitoriamo nel nostro Paese, soprattutto da quando è finita l’emergenza Covid: accanto a settori che competono e possono quindi concedere ai propri dipendenti maggiori salari (si pensi all’incremento medio della busta paga dei bancari ottenuto con il rinnovo del contratto collettivo di qualche mese fa), soluzioni organizzative innovative (gli accordi Luxottica o Lamborghini nella metalmeccanica) o maggiore e migliore welfare (accordi integrativi nell’industria farmaceutica), vi sono anche ambiti merceologici di uguale importanza, caratteristici per l’Italia (commercio, turismo, pubblici esercizi) che ancora arrancano, che faticano a rinnovare i contratti nazionali (si veda la trattativa tra le sigle datoriali e sindacali del commercio e dei servizi) e che, per tipologia di attività, non possono “smartworkizzare” il lavoro né permettere meno turni a parità di salario”.
Come intervenire in questi comparti?
"In questi ambiti di micro e piccola impresa prevalente, la fantasia delle relazioni industriali dovrà immaginare soluzioni innovative, quali furono in passato gli enti bilaterali, e il legislatore dovrebbe fare la sua parte contrastando questo impoverimento economico mediante la leva degli incentivi fiscali e contributivi da usare come sorta di “risarcimento” del lavoro “scomodo” (perché notturno, festivo, intermittente etc.) perché le imprese operanti nel commercio, nei pubblici esercizi e nel turismo possano offrire salari in grado di attrarre il personale altrimenti sottratto dai settori a maggiore valore aggiunto. Ne va di una buona fetta del PIL e del futuro del nostro Paese”.