Roma, 24 dicembre 2015 - DA QUANDO esiste, l’uomo al comando è stato sempre scelto dal partito più importante della maggioranza di governo. In genere si è trattato del direttore generale, salvo un periodo in cui Ettore Bernabei - uomo forte dell’azienda - costretto dal centrosinistra a convivere con un amministratore delegato, fece in modo che arrivasse un socialista gentiluomo, Luciano Paolicchi, che non gli tolse nemmeno un’oncia di potere.
IL NUOVO amministratore delegato disegnato dall’ultima legge di riforma è invece il capo assoluto dell’azienda e ha i poteri dei suoi omologhi in una normale società per azioni. Questo è un bene, in nome della tanto invocata ‘normalità’ italiana. Ed è un bene al tempo stesso che nelle nomine più importanti egli debba confrontarsi con il consiglio di amministrazione per garantire una certa articolazione nelle scelte. Quando qualche mese fa dissi a Sir Tony Hall, direttore generale della Bbc, che questo sarebbe accaduto alla Rai, lui se ne meravigliò. «Qui - mi rispose - decido tutto io». Eravamo stati invitati entrambi ad assistere al Guglielmo Tell diretto da Tony Pappano alla Royal Opera House, Hall arrivò al secondo atto e disse: «Scusatemi , ma oggi ho dovuto licenziare mille persone». Era la sua risposta alla richiesta del governo, al quale pure è considerato vicino, di far fronte a un deficit altissimo. (Le nostre tradizioni richiedono per fortuna sistemi meno drastici). Sul piano delle nomine, la guida del governo da parte del presidente del Consiglio che ha più poteri in epoca repubblicana suggerisce agli amministratori - delegato e non - un grandissimo equilibrio per evitare che abbiano ragione quanti dicono che siamo tornati a prima della riforma del ’75 quando il controllo della Rai passò dal governo al Parlamento (istituzionalizzando la lottizzazione). Sul piano delle risorse, si è arrivati finalmente a quella riduzione del canone e alla sua riscossione in bolletta che il vostro cronista propose per primo anche su questo giornale almeno cinque anni fa ai tempi del governo Berlusconi.
LA PARTE destinata alla Rai dei 400/450 milioni in più che si incasseranno, nonostante il canone italiano sia di gran lunga il più basso d’Europa, servirà a finanziare anche i poderosi investimenti tecnologici di cui l’azienda ha urgentissimo bisogno. Nonostante la qualità media dei nostri programmi sia oggettivamente tra le più alte del mondo, la maggioranza degli italiani vorrebbe l’abolizione del canone e una Rai almeno in parte privatizzata. Mi permetto di essere radicalmente contrario a una ipotesi del genere per evitare che un domani si dica che si stava meglio quando si stava peggio.
IN FRANCIA il governo di centrodestra regalò la prima rete a un grande imprenditore amico e per non dargli fastidio tolse quasi tutta la pubblicità alle reti pubbliche superstiti. In Italia - a parte l’editore di questo giornale - non esistono editori puri, cioè che non abbiano interessi in altri settori economici. E ciò potrebbe rendere la credibilità della Rai perfino più debole di quanto non lo sia oggi quando la gente la immagina più controllata dal sistema politico di quanto in realtà non lo sia.
Insomma, nessuna riforma è buona o cattiva in astratto. Soltanto dopo aver assaggiato il budino vedremo se davvero è buono.