Roma, 27 novembre 2015 - Dopo la sparata di ieri sull'università e i giovani, il ministro del lavoro Giuliano Poletti ne lancia un'altra. Al centro questa volta l'unità di misurazione del lavoro. "Dovremmo immaginare contratti che non abbiano come unico riferimento l'ora-lavoro", ha detto il ministro in un intervento a un convegno sul Jobs act alla Luiss. In pratica Poletti sottolinea la necessità di inserire nei contratti anche altri criteri per la definizione della retribuzione che non siano solo riferimento all'ora-lavoro, affermando che l'ora di lavoro, a fronte dei cambiamenti tecnologici, "è un attrezzo vecchio". Bisogna misurare anche, ha spiegato, l'apporto dell'opera. Il lavoro, ha spiegato Poletti, è "un po' meno cessione di energia meccanica a ore, ma sempre risultato. Con la tecnologia possiamo guadagnare qualche metro di libertà". Il ministro ha anche sottolineato la necessità di lavorare all'introduzione di forme di partecipazione dei lavoratori all'impresa.
L'affermazione di Poletti non ha mancato di sollevare nuove polemiche, a partire dai sindacati. La leader della Cgil Susanna Camusso, ha subito risposto alle parole del ministro. "Bisogna smettere di scherzare quando si parla di temi del lavoro, bisogna ricordarsi che la maggior parte delle persone fa un lavoro faticoso: nelle catene di montaggio, le infermiere negli ospedali, la raccolta nelle campagne, dove il tempo è fondamentale per salvaguardare la loro condizione". Il segretario della Cgil ha poi ribadito: "Non bisogna pensare che il mondo del lavoro sia una piccola parte così professionalizzata che vive nel mondo della digitalizzazione dove non si può pensare a un lavoro invasivo di tutto". E sulle forme di partecipazione, ha continuato la Camusso: "Non capisco perché devono essere sostitutive di quelli che sono invece strumenti di regolazione dell'effettiva prestazione dei lavoratori, altrimenti si finisce come sul sistema dei voucher che teoricamente dovrebbe essere orari, ma invece scopriamo che si paga un voucher e si fa tanto nero".
Nel frattempo continua a tenere banco anche il dibattito innescato dall'affermazione del ministro sul fatto che sia meglio laurearsi prima dei 28 anni, che con 110 e lode. "Non ho mai pensato che i giovani italiani non siano impegnati - spiega Giuliano Poletti -. Piuttosto il tema è l'approccio culturale perché l'età media avanzata riduce le opportunità". Così, il ministro torna a precisare il suo pensiero espresso ieri sull'età avanzata dei laureati italiani e sulle difficoltà di entrata nel mercato del lavoro. "Non vogliamo dare colpe a nessuno - ha detto a margine del convegno in corso alla Luiss - il voto ha la sua importanza perché definisce l'impegno". Anche il ministro dell'Istruzione, università e ricerca, Stefania Giannini, commenta l'affermazione del collega: "Sintetizzo l'efficacissimo ragionamento dell'amico Giuliano Poletti: credo che la sua sintesi sia 'meglio presto che bene'. Da mamma e da professoressa io dico meglio presto e meglio bene".
La frase "laurearsi a 28 anni con 110 e lode non serve a un fico, meglio con 97 a 21 anni" ha fatto particolarmente scalpore anche per il fatto che il ministro Poletti non è laureato. "Ho registrato che, in qualche caso, si è ironizzato sul fatto che io non sono laureato - ha replicato il ministro alle accuse -. Informo gli interessati che ho lavorato fino dall'infanzia, anche durante gli studi, e che ho interrotto l'università, dopo avere sostenuto venti esami studiando di notte. All'arrivo del secondo figlio ho scelto di dedicarmi al mio lavoro e alla mia famiglia. Una scelta - conclude Poletti - che mi è pesata, ma che sono felice di aver fatto perché mi ha dato molto più di una laurea".