Il voto era scontato, la bagarre no. Sul salario minimo si consuma l’ennesimo scontro fra opposizione e governo. Ma questa volta i toni sono più alti, i gesti diventano plateali, le parole si trasformano in accuse nette. Tutto avviene quando l’Aula boccia, con 149 no e 111 a favore, l’emendamento fortemente voluto dal centrosinistra che reintroduce la soglia minima dei 9 euro per le retribuzioni. È a questo punto che l’ex premier, Giuseppe Conte, si alza dal suo scranno e straccia platealmente in aula il testo della proposta di legge, ritirando la firma al provvedimento. Seguito, a ruota, dalla leader del Pd, Elly Schlein, che si prende tutta la scena tuonando contro l’esecutivo: "State pugnalando alle spalle gli sfruttati, senza nemmeno il coraggio di guardarli negli occhi mentre affossate il salario minimo. Non nel mio nome". Poi, la numero uno dei dem e il leader dei Cinquestelle si appartano in Transatlantico per un fitto scambio di battute. Forse anche per preparare la nuova protesta prevista per oggi a Montecitorio quando, si dice, dai banchi dell’opposizione saranno esposti cartelli con la scritta "vergogna".
Fatto sta che almeno su questo terreno il centrosinistra trova la sua compattezza. Via via, tutti i firmatari della originaria proposta di legge unitaria (a cui solo Matteo Renzi non ha partecipato) ritirano la loro firma. Il blitz per costringere il governo e il centrodestra di dire plasticamente e pubblicamente no al salario minimo si infrange sul muro delle regole parlamentari. Sulla carta, infatti, la proposta di legge resta, sia pure senza alcun riferimento al salario minimo. Nei fatti il progetto del centrosinistra naufraga quasi completamente con il maxi-emendamento, firmato da Walter Rizzetto, il presidente meloniano della commissione Lavoro, che sostituisce e cancella i 9 euro lordi l’ora di salario minimo legale.
Il provvedimento consegna all’esecutivo il compito entro sei mesi, quindi a giugno, di trovare un meccanismo per garantire "retribuzioni eque". Il numero uno dei Cinquestelle spara a zero: "Dopo balletti e teatrini e rinvii, il governo e Meloni hanno gettato la maschera. Chi in quest’aula ha votato no si deve vergognare". In realtà ieri sono stati votati i quattro emendamenti delle opposizioni: il primo puntava a reintrodurre i 9 euro, un altro sopprimeva la delega al governo, un terzo sostituiva la proposta dell’esecutivo e l’ultimo interveniva sulla formulazione in base alla quale la destra prende come punto di riferimento i "contratti più applicati" e non quelli "più rappresentativi" per determinare una soglia salariale adeguata.
In un’Aula carica di tensioni tocca a Maurizio Lupi e Tommaso Foti difendere le scelte della maggioranza, spiegando che nulla vieta di modificare una proposta delle opposizioni e il presidente di turno Giorgio Mulè assicura che il regolamento di Montecitorio è stato pienamente rispettato. La legge delega della destra prevede di estendere entro sei mesi il trattamento economico complessivo minimo del contratto più applicato a tutti i lavoratori che nella stessa categoria, o in quella più affine, non siano coperti dalla contrattazione collettiva. Altra novità è la partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili delle imprese, tema caro alla Cisl di Luigi Sbarra.
Poco prima del voto, con una audizione davanti alle commissioni lavoro di Camera e Senato riunite, parla il commissario Ue Nicolas Schmit, autore della direttiva europea sul salario minimo. Un invito arrivato proprio dai Dem nel giorno del voto sul provvedimento. Ma le parole del membro dell’esecutivo europeo non sono servite a evitare la bagarre.