Roma, 16 gennaio 2024 – Il numero dei pensionati in Italia continua ad aumentare, ma il sistema previdenziale è "sostenibile e lo sarà anche tra 10-15 anni" a patto però che si ponga "un limite alle troppe eccezioni alla riforma Monti-Fornero e all'eccessiva commistione tra previdenza e assistenza cui si è assistito negli ultimi anni". È quanto suggerisce l'XI rapporto del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali presentato oggi alla Camera, da cui emerge che nel 2022 che il nostro Paese ha speso 247,588 miliardi di euro per pagare le pensioni (invalidità, vecchiaia e superstiti) a 16,131 milioni di persone (32.666 unità in più rispetto al 2021) con un'incidenza sul Pil del 12,97%. Un dato che, al netto di oneri e altre integrazioni, scende al 11,72% in linea con la media Eurostat. La percentuale cala addirittura all'8,64% escludendo anche i circa 59 miliardi di imposte (Irpef) che in molti Paesi dell'Unione o di area Ocse sono molto più basse, quando non del tutto assenti, sulle pensioni. "Un esercizio di calcolo – commenta il professore Alberto Brambilla, presidente di Itinerari Previdenziali – fondamentale per evitare che eccessive sovrastime convincano l'Europa a imporre tagli alle pensioni che, come evidenziano questi numeri, presentano invece una spesa tutto sommato sotto controllo".
A questo si aggiunga che, dopo la forte crisi causata dal Covid, il tasso di occupazione è in netta risalita: nell'anno di indagine arriva al 60,1% e, pur restando tra i più bassi d'Europa, fa sì che migliori il rapporto occupati/pensionati (1,44 lavoratori ogni pensionato). "La soglia della semi-sicurezza dell'1,5 è ancora lontana – sottolinea ancora Brambilla – ma, nel complesso, il sistema regge e continuerà a farlo, a patto di saper compiere - in un Paese che invecchia - scelte oculate su politiche attive per il lavoro, anticipi ed età di pensionamento".
Tre proposte per le pensioni
Da qui, suggerisce Brambilla, la necessità "di darsi regole certe per almeno i prossimi 10 anni". Tre dunque le soluzioni: "1) limitare le numerose forme di anticipazione a pochi ma efficaci strumenti, come fondi esubero, isopensione e contratti di solidarietà (riportando però l'anticipo a un massimo di 5 anni); 2) bloccare l'anzianità contributiva agli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 per le donne, con riduzioni per donne madri e precoci, così come previsto dalla riforma Dini, e superbonus per quanti scelgono di restare al lavoro fino ai 71 anni di età; e 3) soprattutto equiparare le (poco eque) regole di pensionamento dei cosiddetti contributivi puri a quelle degli altri lavoratori".
Assistenza scorporata dalla previdenza
Nel 2022 l'Italia ha complessivamente destinato a pensioni, sanità e assistenza 559,513 miliardi di euro, con un incremento del 6,2% rispetto all'anno precedente (32,656 miliardi): la spesa per prestazione sociali ha assorbito oltre la metà di quella pubblica totale, il 51,65%. Rispetto al 2012, e dunque nell'arco di un decennio, la spesa per welfare è aumentata di ben 127,5 miliardi strutturali (+29,4%); aumento ascrivibile soprattutto agli oneri assistenziali a carico della fiscalità generale, cresciuti del 126,3% a fronte dei "soli" 37 miliardi della spesa previdenziale (+17%) e del 18% del nostro Prodotto Interno Lordo. Da qui il richiamo, da parte di chi ha redatto il rapporto, alla necessità di separare previdenza e assistenza, contenendo maggiormente quest'ultima. Per pagare sanità, assistenza e welfare degli enti locali, sostiene il rapporto, non bastano le imposte dirette ma bisogna ricorrere a una parte di quelle indirette. "Il tutto mentre il debito pubblico si avvicina pericolosamente ai 3mila miliardi e, secondo i dati Istat – precisa Brambilla – il numero di persone in povertà continua a salire (quelle in povertà assoluta erano 2,113 milioni nel 2008 e 5,6 nel 2021). Verrebbe da dire che non solo spendiamo molto ma che spendiamo anche male. Ed è forse questa spesa eccessiva, abbinata agli scarsi controlli, a incentivare sommerso e lavoro nero, generando il tasso di occupazione peggiore in Europa".
Come ricorda il rapporto, su 38 milioni di persone in età da lavoro l'Italia tocca il proprio record con poco più di 23,5 milioni di occupati. Sono soprattutto due i rapporti che danno l'idea dell'incidenza del welfare sulla vita economica del Paese: quello sul PIL, che vale il 29,31% con l'esclusione della "casa", e quello sulla spesa pubblica totale, pari al 51,65%. In buona sostanza, al welfare italiano è destinato poco meno di un terzo di quanto si produce e più della metà di quanto si spende in totale. Numeri che, trascinati da una quota assistenziale fuori controllo, contraddicono il sentire comune secondo cui l'Italia spenderebbe meno degli altri Paesi dell'UE per il proprio sistema di protezione sociale: anzi, il rapporto tra spesa sociale e PIL ci colloca al terzo posto delle classifiche Eurostat, quasi appaiati al secondo posto dell'Austria e superati dalla sola Francia.