Roma, 24 agosto 2023 – C’è una voce della manovra che preoccupa sempre di più il ministero dell’Economia e, dunque, il governo. È la rivalutazione delle pensioni, per adeguarle all’inflazione: da sola vale circa 13 miliardi di euro, quasi la metà dell’intera legge di Bilancio. Ma, quel che più allarma è che non si potrà scendere sotto la cifra indicata, a meno di non determinare la mobilitazione massiccia di milioni di pensionati, dopo i tagli agli aumenti previsti dalla manovra per questo anno, come effetto del varo di un meccanismo di calcolo penalizzante. A far lievitare il conto delle rivalutazioni delle pensioni all’inflazione è l’andamento degli incrementi dei prezzi che anche in questi mesi sono stati in crescita. L’inflazione acquisita nel 2023 è già al 5,6% mentre va considerata anche la differenza tra quella riconosciuta l’anno scorso (il 7,3% per i trattamenti fino a quattro volte il minimo) e l’inflazione reale. Siamo oltre il 6 per cento di aumento e ogni punto costa circa 2 miliardi.
Nella legge di bilancio dell’anno scorso la rivalutazione è stata tagliata per fasce a partire dagli assegni oltre quattro volte il minimo e quest’anno dovrebbe essere mantenuto quel criterio. L’intera operazione potrebbe valere oltre 13 miliardi. Il problema, però, è che di fatto garantire l’adeguamento degli assegni all’incremento del potere d’acquisto riduce drasticamente i margini complessivi dell’operazione di finanza pubblica per il 2023 e stronca tutte le aspettative dei partiti (Lega e FI innanzitutto) rispetto al pacchetto previdenza. Da qui gli spazi ristretti non solo per Quota 41, tanto sostenuta dai leghisti, ma anche per significativi ritocchi alle pensioni minime, bandiera degli azzurri di Antonio Tajani. La conseguenza però non sarà solo quella di confermare per l’anno prossimo al massimo le misure esistenti (da Quota 103 all’Ape sociale, con pochi ritocchi, al canale agevolato per i cosiddetti precoci), ma potrà arrivare, come anticipato ieri, anche alla cancellazione di quel che resta di Opzione donna, la possibilità per le lavoratrici di lasciare il lavoro a 58-60 con il calcolo interamente contributivo della rendita. Con una variante che, però, non produrrà gli stessi effetti: l’introduzione di una specifica Ape sociale per le donne a un’età più bassa che per gli uomini, non a 63 anni, ma a 60.
Meloni e la ministra del Lavoro, però, potrebbero decidere di lasciare e lanciare un segno a favore dei giovani contro il rischio concreto che le nuove generazioni siano costrette a pensioni da fame raggiungibili da 70 anni in avanti. Un rapporto dei mesi scorsi della Corte dei Conti elaborato su un campione di 56mila lavoratori, "rappresentativi di una popolazione di quarantenni assicurati pari a 486mila", mette in rilievo che il 28% dei giovani ha una retribuzione lorda sotto i 20mila euro annui. Ma, in linea complessiva, salvo eccezioni (militari, forze dell’ordine e pubblico impiego), la somma dei contributi versati "appare relativamente modesta e non supera i 100mila euro in 6 casi su 11". Con le donne messe peggio. Il risultato a oggi è di pensioni che, per oltre la metà dei giovani, non supereranno i 400-500 euro mensili attuali.
Il governo, dunque, potrebbe tentare di cominciare a mettere mano alla pratica. Come? Innanzitutto eliminando due parametri-capestro del sistema contributivo: il primo è quello che contempla che per anticipare la pensione di tre anni occorre che l’importo minimo sia pari a 2,8 volte la pensione minima, il secondo è che comunque si debba raggiungere almeno l’indice di 1,5 volte la stessa pensione minima anche per lasciare il lavoro a 70 anni e più. Si tratterebbe di due interventi non costosi in termini di cassa immediata e che potrebbero anticipare la pensione di garanzia vera e propria alla quale arrivare negli anni a venire.