Giovedì 29 Agosto 2024
CLAUDIA MARIN
Economia

Previdenza e "finestre" per la pensione: la storia dei marchingegni inventati per ritardare le uscite dal lavoro

Esistono dalla metà degli anni Novanta. Di cosa si tratta e come possono incidere sul pensionamento dei lavoratori

Roma, 29 agosto 2024 – Le cosiddette “finestre”, venute alla ribalta in questi giorni di dibattito sull’ennesimo intervento annuale sulle pensioni, accompagnano, in realtà, la storia della previdenza in Italia almeno dalla metà degli anni Novanta, se non da prima. Di che cosa si tratti e di come possano incidere significativamente sul pensionamento dei lavoratori, proviamo a raccontarlo qui. Il marchingegno – le “finestre” – furono il frutto, all’epoca della riforma Dini, a metà degli anni Novanta, della fantasia di qualche illuminato tecnico del Tesoro il cui obiettivo era quello di determinare una sorta di programmazione dei pensionamenti a scadenze definite: si stabilì che, una volta maturati i requisiti, si poteva andare in pensione di anzianità (e poi anche di vecchiaia) solo in certi mesi dell’anno, con il risultato così di allungare di fatto i tempi di permanenza al lavoro. In sostanza, quando si maturavano le condizioni per andare in pensione, comunque sia non ci si poteva andare subito: dal 1995 al 2010 si doveva aspettare una certa data (per esempio aprile o luglio) perché si aprisse la porta di uscita in un complicato gioco di incastri tra maturazione dei requisiti e fuoriuscita effettiva.

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Pensionati in attesa presso un ufficio INPS di Napoli in una immagine di archivio. ANSA/CIRO FUSCO

Nel 2010, la fantasia si amplia e si passa dalle finestre fisse a quelle mobili: si doveva attendere 12 mesi (se lavoratori dipendenti) o 18 mesi (se lavoratori autonomi) dal momento del raggiungimento dei requisiti. E così la finestra da fissa era diventata mobile, ma il risultato non cambiava di molto: di fatto il pensionamento era ritardato di un anno o più. Con la conseguenza che sul piano pratico l’età pensionabile non era di 65 anni, ma già di 66.

A fine 2011 e, dunque, a partire dal primo gennaio 2012 la riforma Fornero ha abolito tutto questo meccanismo e si è tornati all’antico: la pensione decorre dal primo giorno del mese successivo a quello del raggiungimento delle condizioni stabilite di età e di contributi, a patto naturalmente che si faccia la relativa domanda. Altrimenti, dal primo giorno del mese successivo a quello nel quale si presenta la domanda. Per non fermare l’attività e l’insegnamento durante l’anno scolastico in corso, però, per docenti e personale della scuola la pensione decorre dal 1° settembre dell’anno di maturazione dei requisiti. E anche per questa ipotesi è stato eliminato il rinvio dell’effettivo pensionamento all’anno successivo, come era stato stabilito per il 2011.

Dunque, nel 2011, con un solo articolo e una più o meno lunga manciata di righe e, come d’incanto, sono sparite quote, finestre mobili, canali e canaletti di uscita, tutto quello strumentario partorito dalla fervida immaginazione dei tecnici di Lavoro e Tesoro nel corso degli anni per irreggimentare e contenere l’anomalia tutta italiana, o quasi, delle pensioni di anzianità che qualcuno aveva anche ribattezzato pensioni di giovinezza. E che, fino a quel momento, nessuno era riuscito a spazzare via del tutto.

La liberazione dalle finestre, però, dura solo qualche anno. E, passo dopo passo, le vecchie-nuove finestre mobili ricompaiono sulla scena della previdenza con tutto il loro carico di non trasparenza. Tant’è che oggi per le molteplici forme di pensionamento (slavo che per la pensione di vecchiaia), chiunque voglia lasciare il lavoro deve fare i conti con almeno tre mesi di ritardo nel pensionamento effettivo dal momento della maturazione dei requisiti. Ma tre mesi è il minimo.