Lunedì 25 Novembre 2024
CLAUDIA MARIN
Economia

Le baby pensioni sono ancora 335mila. Ecco quanto pesano sull’Inps

Tanti sono gli italiani che percepiscono l’assegno da almeno 42 anni. Tutti i dati del Rapporto sul bilancio del sistema previdenziale

Roma, 18 gennaio 2024 – Al primo gennaio 2023 risultano in pagamento presso l’Inps ben 334.078 prestazioni pensionistiche – comprese quelle ex Inpdap relative ai dipendenti pubblici –liquidate da 42 anni o più: pagate a tutt’oggi a persone andate in pensione nel 1980, o anche prima. Sono oltre 5,5 milioni e mezzo, invece, quelle con durata superiore ai 20 anni. E’ quanto emerge da uno dei focus contenuti nell’undicesimo Rapporto sul Bilancio del Sistema Previdenziale italiano realizzato da Itinerari previdenziali.

Pagamento delle pensioni in posta
Pagamento delle pensioni in posta

Le baby pensioni

Nel dettaglio, per le più antiche pensioni si tratta di 294.093 prestazioni del settore privato, il 2,1% del totale delle pensioni vigenti, fruite da lavoratori dipendenti o autonomi (artigiani, commercianti e agricoli), di cui 241.059 donne (l’82%) e 53.034 (il 18%) uomini, e di 39.985 pensione fruite da dipendenti pubblici, di cui 28.024 (il 70,1%) donne e 11.961 (il 29,9%) uomini, rappresentative dell’1,3% del totale delle pensioni Inps.

Tante ma meno del 2022

Numeri elevati anche se, nel complesso, il calo rispetto allo scorso anno è significativo: al 2022 le prestazioni di durata quarantennale erano quasi 400mila, con un decremento – per lo più fisiologico e tristemente imputabile al decesso del percettore – che, nel solo comparto privato, ha riguardato 59.686 trattamenti (-16,9%). Se si considera però che prestazioni corrette sotto il profilo attuariale dovrebbero essere correlate alla durata della vita contributiva attiva, che in media in Italia è di circa 20 anni per le pensioni di vecchiaia e di 35 anni per le anticipate, quelle evidenziate nel Report sono cifre destinate a far riflettere su una delle principali criticità del nostro sistema, l’elevato numero di “deroghe” concesse nel tempo all’età legale di pensionamento.

Le conseguenze

Attraverso l’esame in serie storica delle pensioni ancora in vigore al primo gennaio 2023, a partire da quelle decorrenti dal 1980 (o anni precedenti), il documento – formulato tenendo conto delle età medie rilevate dagli Osservatori Statistici dell’Inps – permette di ricavare importanti indicatori sull’evoluzione della normativa italiana in ambito pensionistico e sugli effetti prodotti dalle diverse leggi sulla spesa pubblica del Paese. Con il chiaro intento di evidenziare errori da non ripetere nonostante alcune recenti e pericolose tentazioni, come ad esempio Quota 100.

La riforma Fornero

"Con la riforma Monti-Fornero si è indubbiamente poi passati a un’eccessiva rigidità, ma questi dati dimostrano quanto tra il 1965 e il 1990 i decisori politici abbiano perso di vista la correlazione tra contributi e prestazioni, adottando requisiti di eccessivo favore che appesantiscono tuttora il bilancio del welfare italiano a discapito di tutti quei lavoratori che accedono al pensionamento a età regolari”, spiega Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali.

Sistema ed equilibrio

D’altra parte, come sottolineato nella pubblicazione, affinché il sistema resti in equilibrio, è essenziale un giusto rapporto tra periodi di vita lavorativa (e dunque anche di contribuzione) e durata del trattamento pensionistico. E così appunto non è per le pensioni a lunga decorrenza.

L’età media di pensionamento ieri e oggi

Basti pensare, come rileva il Rapporto, che nel settore privato l’età media alla decorrenza dei pensionati che percepiscono la rendita da 42 anni e più, ancora viventi, è di 39,9 anni (37,5 anni gli uomini e 40,5 le donne): quadro sul quale in verità pesano molto le età giovanili delle pensioni di invalidità e di quelle ai superstiti.

Nella Pubblica amministrazione, l’età media è di 39,7 anni (36,8 per gli uomini e 41,0 per le donne). Giusto per fare un confronto, le età medie dei lavoratori andati in pensione nel 2022 erano rispettivamente di 67,5 per la vecchiaia, 61,6 per anticipate e prepensionamenti, 55,4 per le invalidità e 77,7 per le prestazioni ai superstiti degli uomini del settore privato e di 61,2 (anticipate e prepensionamenti), 67,3 (vecchiaia), 58,6 (prepensionamenti), 54,1 (invalidità) e 74,8 (superstiti) con riferimento alle donne.

L’aspettativa di vita

"Anche volendo considerare l’elevata aspettativa di vita del nostro Paese, che non si può anzi più trascurare quando si affronta il tema dei requisiti per il pensionamento, siamo troppo oltre quel paletto dei 20/25 anni che dovrebbe rappresentare il punto di mediazione tra periodo di lavoro e tempo di quiescenza: anzi, a oggi – puntualizza Brambilla – sono in pagamento tra pubblici e privati 5.586.300 prestazioni IVS che hanno già superato una durata di 20 anni, vale a dire il 33,3%, circa un terzo di quelle complessivamente vigenti”. Nel dettaglio, le donne con pensioni di durata più che ventennale sono il 35,3% del totale di genere (9.320.627), mentre gli uomini rappresentano il 30,8% del totale di genere (7.472.831). D’altro canto, proprio le donne (notoriamente più longeve) fanno la parte del leone nel complesso dei due settori. Per quanto riguarda invece la tipologia dei trattamenti più diffusi si segnalano in particolare prestazioni di invalidità, superstiti e vecchiaia che, nel caso delle pensionate, hanno generalmente importi più bassi rispetto a quelle degli uomini ma che, a seguito di una durata appunto maggiore, comportano una spesa complessiva superiore.

L’età pensionabile e le riforme future

“Spesso gli italiani si lamentano perché l’età pensionabile è (in alcuni casi anche molto nettamente) più elevata che in passato. Il che è vero – ha concluso Brambilla – ma succede perché appunto viviamo di più e dobbiamo agire di conseguenza nel rispetto dei più giovani, con i cui contributi vengono pagati pensioni e anticipazioni, e di quel patto intergenerazionale su cui si fonda la tenuta della previdenza italiana. Ecco perché, senza colpevolizzare quanti hanno potuto beneficiarne, questa vasta schiera di prestazioni ancora in pagamento, seppur concesse ormai molti anni fa, deve semmai diventare un promemoria per la politica e monito per i fautori delle troppe anticipazioni”.