Roma, 21 settembre 2024 – Il governo punta a consentire la permanenza al lavoro dei dipendenti pubblici che, una volta raggiunti i requisiti per la pensione, volessero rimanere in servizio almeno fino ai 70 anni e oltre. E’ un intervento che va nella direzione giusta o rischia di tenere fuori dal sistema pubblico nuove competenze? “Negli ultimi anni – spiega Francesco Verbaro, presidente di Formatemp e senior advisor di Adepp, ex Segretario generale del Ministero del Lavoro - abbiamo introdotto disposizioni per anticipare l’uscita dal mercato del lavoro per pensionamento, misure che per le penalizzazioni sulle prestazioni sono state utilizzate parzialmente dai lavoratori. Al contempo abbiamo, però, dipendenti che, pur raggiungendo il limite di età, soprattutto nel pubblico, sarebbero disponibili a rimanere ancora in servizio e che sarebbero ancora di aiuto alle amministrazioni di appartenenza per le loro specifiche competenze. Perché spesso le stesse Amministrazioni non sono riuscite a bandire il concorso o a trovare una adeguata sostituzione interna o per mobilità. Pensiamo ai tanti comuni e alle difficoltà che abbiamo registrato nei concorsi degli ultimi anni”. Permettere di restare in servizio è, dunque, utile? “Per questo sarebbe utile prevedere uno strumento di flessibilità per il datore di lavoro pubblico che consenta di offrire a un proprio dipendente la possibilità di permanere in servizio nell’area e nella famiglia professionale o profilo per un periodo massimo di due anni. Aiuterebbe l’amministrazione, in un momento storico in cui è difficile reclutare personale, a non trovarsi sguarnita rispetto a competenze qualificate non facilmente formabili o rinvenibili, in un contesto in cui riforma dei bilanci, appalti, attuazione del Pnrr e spesa dei fondi UE richiedono l’impegno delle persone con maggiori competenze. Questo consentirebbe di avere ulteriore tempo, per un periodo massimo due anni. per trovare una soluzione stabile”. Eppure, con una programmazione adeguata il turn over sarebbe garantito. “È vero che il pensionamento per raggiungimento dei limiti di età è un fatto prevedibile, ma siamo al contempo consapevoli delle difficoltà di trovare oggi personale competente e non solo neolaureato. Pensiamo all’utilità di questa disposizione per le piccole amministrazioni, che hanno maggiori difficoltà nel coprire i posti vacanti”. Ma la scelta sarebbe di restare sarebbe del lavoratore o della Pubblica amministrazione? “Con questo strumento non si riconoscerebbe nessun diritto al lavoratore ma una facoltà in capo all’amministrazione di poter, previo consenso del lavoratore, utilizzare ulteriormente alcune competenze specialistiche con la permanenza in servizio. La norma non avrebbe oneri in quanto la mancata cessazione non consentirebbe di avere risorse per nuove assunzioni e sarebbe comunque una soluzione temporanea. Si potrebbe applicare solo ad alcuni profili e famiglie di profili e per aree di inquadramento elevate”. Si dovrebbe applicare anche alla dirigenza? “Non sarebbe da applicare alla dirigenza. Come ci dice il Conto annuale sul personale del MEF, mentre il numero dei dipendenti si è ridotto negli ultimi anni altrettanto non si può dire per i dirigenti, il cui numero elevato spesso costituisce un ostacolo nella riorganizzazione degli uffici”. Come è cambiato il mercato del lavoro pubblico? “Siamo in una fase storica nuova del nostro mercato del lavoro già diversa da quella di dieci o venti anni fa. Il combinato di demografia negativa, basso tasso di laureati e bassa attrattività del settore pubblico nei confronti dei giovani rendono illogici approcci e norme emanate qualche anno fa. Il settore pubblico non può ignorare nella gestione del personale in servizio o nel reclutamento di nuove risorse, quanto sta accadendo nel mercato del lavoro e l’impatto della demografia su di esso. Il nostro pensiero è legato ancora a vecchie norme come quelle sul trattenimento in servizio fino a 70 anni, utilizzate da molti grand commis, veri eternauti, dell’epoca (2004); o alla norma che vieta l’attribuzione di incarichi di studio e di consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza, considerata giusta in quanto avrebbero favorito i giovani e portato a dei risparmi”. Quali rischi si hanno nel tenere le regole attuali? “Il mercato del lavoro della Pubblica amministrazione è cambiato radicalmente in pochi anni, così come avvenuto nel restante mercato del lavoro. Pertanto, oggi, servono un approccio diverso e strumenti di flessibilità in uscita che non abbiamo. Velleitario pensare di sostituire tutti quelli che andranno in pensione nei prossimi dieci anni dal punto di vista quantitativo. Circa 100.000 assunzioni l’anno. Significherebbe che esternalizzazioni, società partecipate, ma soprattutto la digitalizzazione e la trasformazione digitale non hanno avuto e non avranno alcun effetto. Assurdo far riferimento a dotazioni organiche definite oltre venti anni fa. Rischiamo di mantenere in vita uffici inutili e ormai privi di attività e competenze. Non basta”. Nel senso? “Abbiamo visto che mediamente i concorsi ci consegnano il 50% del nostro fabbisogno, a causa di rinunce e dimissioni. E non sempre il personale reclutato risponde subito al fabbisogno; richiede una formazione di inserimento specialistica difficile da erogare se non attraverso gli interni più bravi. La permanenza in servizio di due anni potrebbe consentire in certi casi al trasferimento di quelle competenze formate in decenni di lavoro e sarebbe in linea con le politiche di active ageing sostenute a livello comunitario, che invitano a lavorare fino a tarda età. Ad una PA all’altezza dei tempi servono strumenti flessibili sia per anticipare le uscite di persone poco produttive sia per posticipare l’uscita di competenze disponibili e qualificate. Ma per riconoscere tali flessibilità occorre avere fiducia nella capacità della PA di saper individuare e gestire i propri fabbisogni di personale”.
EconomiaPrevidenza, l'esperto: "Alla Pa serve far restare in servizio i lavoratori pensionandi"