Bruxelles, 15 dicembre 2023 – Bruxelles non è il Parlamento italiano, qui Giorgia Meloni si sforza di essere cauta, lavora di diplomazia, ma la sostanza non cambia: l’accordo sul Patto di stabilità non c’è. Il rischio che l’Italia si trovi controvoglia a dover bloccare la riforma con il veto, invece, c’è tutto: "Le posizioni sono ancora distanti – dice – bisogna vedere quale può essere il punto di caduta migliore".
Evita però di porre ultimatum su questa o quella voce specifica. "È un equilibrio, ci sono tre punti in discussione che creano un equilibrio diverso". Stessi toni sommessi quando, negando l’evidenza, esclude ogni correlazione tra le regole di bilancio e la ratifica della riforma del Mes: "Non c’è alcun ricatto, è un link che vedo solo nel dibattito italiano". Per la stessa esigenza di felpatezza, la premier evita minacce esplicite: non voglio metterla così, poi però proprio così la mette. "L’unica cosa che non posso fare è dare il mio ok a un Patto che non io, ma nessun governo italiano potrebbe rispettare perché sarebbe ingiusto e inutile".
Da Roma il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, è più brusco: "Metteremo la firma se farà gli interessi del Paese", osserva criticando l’idea di convocare la riunione decisiva dell’Ecofin mercoledì in videocall: "Non si può chiudere così un accordo che condiziona l’Italia per i prossimi anni". Parole rilanciate una per una dal leader leghista Matteo Salvini, che chiosa: "Se è una trappola, non ci metteremo in calce il nome". Insomma, anche se formalmente il Patto non era all’ordine del giorno, il cruccio principe della premier, di ritorno da un Consiglio europeo tra i più difficili, è questo. Per il resto, ne dà una valutazione in "chiaroscuro". Definizione che si adatta sia ai risultati del summit che al suo caso personale.
Di sicuro, lei ha giocato un ruolo importante nello sbloccare la situazione sull’allargamento dell’Unione a Ucraina e Moldavia e questi, in Europa, sono crediti che hanno un loro peso. "Si è utili quando si parla con tutti". Sul bilancio canta vittoria: "A un certo punto della trattativa per le migrazioni non era previsto niente e adesso siamo arrivati quasi a 10 miliardi da spendere particolarmente sulla dimensione esterna". È sincera a metà: è vero che nella bozza i falchi si erano arresi, ma è anche vero che quei 10 miliardi per ora sono virtuali: proprio l’amico Orbán (che potrebbe entrare a Strasburgo nel suo eurogruppo, i Conservatori) li ha bloccati. "Non sono pessimista sul fatto che si possa raggiungere nel prossimo Consiglio". Speranze lecite, forse fondate, ribadite anche dal presidente dell’assise, Charles Michel, ("ci riproveremo nel 2024"), ma la realtà è che per ora non entra un euro. Il plauso della presidente della Commissione, Ursula von der Leyen all’accordo siglato con l’Albania sui migranti è un altro motivo di soddisfazione, amareggiato però dalla sentenza della Corte costituzionale albanese che ha congelato tutto. Anche su quel fronte Giorgia è fiduciosa ("non penso serva un piano B"), ma la musica è sempre la stessa: per ora quell’accordo non esiste.
Sul Medio Oriente poi il Consiglio ha deciso di non decidere: "Si è preferito ribadire le conclusioni dell’ultimo vertice perché se le avessimo rinnovate alcune divergenze avrebbero reso il lavoro difficile". Tra le luci che rischiarano il suo ritorno nella capitale il rapporto con Emmanuel Macron: ai minimi storici appena un anno fa, si è trasformato, grazie all’interesse comune, in una sorta di asse italo-francese. Ma quella convergenza deve fare i conti con il muro rigorista di Germania, Paesi Bassi e frugali vari. Insomma, è con questa Europa che Giorgetti esasperato non esita a bollare come "un’assemblea di condominio incapace di prendere decisioni tempestive" nelle prossime due settimane la premier, ma anche lo stesso ministro, dovranno fare i conti, con il rischio di trovarsi di fronte a un dilemma. Bloccare la riforma del Patto guastando così i rapporti con Bruxelles cioè proprio il fronte sul quale, per ora la presidente ha registrato i soli veri successi, oppure ingoiare regole che li costringerebbero a governare in condizioni proibitive.