Cesena, 14 giugno 2020 - "Abbiamo vissuto lo choc della pandemia e ora siamo immobili per la paura. Ma se pure il dolore per chi ha pagato con la vita non passerà mai, a noi tocca avere fiducia. Dobbiamo farlo per i nostri figli: è il momento di reagire". Instilla coraggio a piene mani Nerio Alessandri, fondatore e presidente di Technogym, il colosso cesenate delle attrezzature per il fitness e il wellness. Figlio di un capomastro e di un’operaia, basterebbe la sua storia, d’altronde, a suonare la carica. Classe 1961, perito industriale, dipendente in un’azienda di macchine per la raccolta della frutta, a 22 anni assemblò in cantina il suo primo attrezzo, che vendette utilizzando una cabina telefonica, non avendo il telefono in casa. Con quegli attrezzi oggi fattura 669 milioni di euro annui, e macina crescite a doppia cifra in gran parte dei continenti, Covid-19 permettendo.
Alessandri, vi sarete fermati anche voi? "Come tutti. Ma siamo ripartiti il 27 aprile e oggi lavoriamo più di prima per recuperare il tempo perduto, con massima determinazione e grazie a una squadra di dipendenti e collaboratori fantastica". Obiettivi? "Conservare i posti di lavoro in primis. Siamo socialmente responsabili nei confronti del territorio, e del paese".
Avrete usato la cassa integrazione? "Quello è ovvio, anzi le dico di più: credo che un aiuto alle imprese per assisterle a sostenere i tre mesi di calamità naturale vissuti – io il Covid lo considero tale – sia un dovere degli Stati. È il primo dei tre punti nella mia ricetta, semplicissima, della ripartenza". Gli altri due? "Agevolare finanziamenti a lungo termine per far fronte ai mancati pagamenti. Terzo, incentivare gli investimenti, in ogni modo’". Investire ora? Non le sembra un azzardo? "È necessario invece. Pensi allo spirito degli anni ‘50, pensi ai nostri genitori. Erano poveri, ottimisti e fiduciosi nel futuro. La loro vita era un azzardo continuo". Loro venivano da una guerra. "Ecco, a proposito, cominciamo con lo sgombrare il campo: questa pandemia, per quanto grave, non è mi-ni-ma-men-te paragonabile alla guerra. Questo paragone è un autogol pazzesco, e chi lo fa è un terrorista".
Se non era così grave, allora, perché siamo finiti in scacco? "Abbiamo affrontato una situazione che non conoscevamo, e questo è il principale problema. Ma di buono c’è che ora sappiamo come affrontarlo. Abbiamo imparato dagli errori. E ora conosciamo le procedure sanitaria, i metodi comportamentali, le dinamiche del virus. La conoscenza dovrebbe scacciare la paura, che invece resta imperante".
Ne vede ancora tanta in giro? "Vedo gente da sola con la mascherina in auto o nei campi, faccia lei! E ragioniamo di mettere il plexiglas tra un banco e l’altro a scuola, quando poi quegli stessi bambini giocheranno appiccicati a ricreazione o nel parco".
Dunque, che fare? "Ritroviamo la calma e l’entusiasmo, prima di tutto. Ripensiamo ai nostri padri, che avevano un’energia pazzesca, e inventavano, producevano, vendevano. Con la loro intraprendenza hanno permesso a noi figli di sognare. Facciamolo anche noi, facciamolo per i nostri figli".
Ci dia un buon motivo per credere che andrà bene. "Gliene do due. Intanto il lockdown ci ha fatto fare un salto verso il futuro. Smart working, digitalizzazione spinta, lotta agli sprechi: che senso ha per un imprenditore andare a New York per incontrare una persona e tornare il giorno dopo? Basta una videochiamata, oggi lo sappiamo. Secondo: abbiamo ritrovato l’orgoglio di essere italiani e un senso di comunità. Ora però siamo a un bivio. Posso farle un esempio?". Prego. "Vede, l’impatto con la pandemia ci ha presi alla sprovvista. Era perciò necessario chiuderci a riccio e siamo stati bravi, veloci e determinati a farlo. Ma ora che bisogna ripartire, dobbiamo essere fiduciosi e ottimisti, e riaprire tutto con la stessa velocità e lo stesso impegno comunicativo che le istituzioni hanno impiegato a farci chiudete tutto. Solo così torneremo uguali e, anzi, saremo migliori di prima".