di Leo TurriniA proposito di fuoristrada! Userò il vocabolario come punto di partenza. Ecco qua: dicesi ’ossimoro’ una "Figura retorica consistente nell’accostare, nella medesima locuzione, parole che esprimono concetti contrari".
Ergo, che senso ha (o avrebbe) associare la Panda, l’auto che tutti gli italiani conoscono dal 1980, alla mitica, massacrante, devastante Parigi-Dakar? Dico quella vera, autentica, africana. Insomma, il durissimo raid che attraversava il Continente Nero. Mica uno scherzo, eh.
Ora, nell’immaginario collettivo la Panda è minuscola, gioiello di una creatività Fiat oggi dolorosamente rimpianta e bla bla bla. Eppure, sissignore, la Piccola per antonomasia ha infilata la testa nelle fauci del Leone. Giuro che è vero. Era l’anno 1984 e quattro Panda si presentarono clamorosamente ai nastri di partenza della Dakar. Il modello aveva un motore di 965 cc, con 48 cv di potenza, l’auto pesava 740 chili.
Fu una avventura pazzesca. Quasi subito due Panda si frantumarono e addio. La terza perse un pezzo nell’abitacolo e scassò un ginocchio di chi la guidava. O almeno così dice la leggenda e la Dakar è come il West di Liberty Vallance, tra verità e leggenda vince sempre la seconda. Tutto finito? Anche no. Restava il quarto esemplare. Panda numero 213 guidata dall’italiano Cesare Giraudo. Un tipo alla Indiana Jones: l’autista scavalca ponti, draga fiumi, evita antilopi e gazzelle. E arriva incredibilmente a Dakar.
Una Panda al traguardo! Una cosa talmente assurda per gli organizzatori che in un primo momento non la inserirono nell’ordine d’arrivo, dubitando che avesse completato il folle tragitto. Fu necessaria la presentazione di un ricorso: accolto, perché talvolta i miracoli accadono. La Panda si classificò al 60° posto su 101 equipaggi giunti al traguardo. Da Parigi erano partiti in 362…