Roma, 23 giugno 2024 – La fluorite a Bracciano, le terre rare in provincia di Cagliari, il litio nel Lazio. E poi il caolino, la bentonite fedspato, ma anche cobalto, neodimio, stronzio, nichel e rame. Una volta c’era la corsa all’oro. Ora, al posto del metallo giallo, si cercano le materie necessarie per costruire i chip e i microcomponenti che troviamo nei nostri telefonini, che fanno girare le pale eoliche, che alimentano i motori delle auto elettriche. Elementi fondamentali anche nelle industrie più avanzate, dalla difesa all’energia. Insomma, tasselli che servono a far girare i motori di un’economia in piena transizione ecologica.
Peccato che, per decenni, l’Italia, ma anche l’Europa, hanno di fatto "snobbato" questi giacimenti, lasciando che a cercare questi materiali e ad aprire le miniere fossero i Paesi al di fuori del Vecchio Continente, dalla Cina alla Turchia fino al Sud America. Con il risultato di aver trasformato queste risorse ormai fondamentali per lo sviluppo nelle cosiddette "materie prime critiche", creato una nuova dipendenza e, soprattutto, aver reso ancora più vulnerabili i nostri sistemi produttivi.
Eppure, nonostante tutto, nel sottosuolo dell’Italia, non mancano giacimenti che potrebbero arricchire il nostro Paese. Secondo la mappa predisposta dall’Ispra, infatti, ci sono almeno mille siti localizzati soprattutto nell’arco alpino e in Liguria, nella fascia costiera tirrenica fra la Toscana e la Campania, in Calabria e in Sardegna.
Vecchie miniere scoperte un paio di secoli fa ma poi progressivamente abbandonate non per l’esaurimento delle risorse ma perché quelle materie prime non erano ancora diventa "critiche" come è successo oggi, dopo la rivoluzione digitale e il new green deal. Negli ultimi anni, poi, a frenare ulteriormente la ricerca e l’estrazione si sono messe le lungaggini burocratiche e le battaglie degli ambientalisti, con il risultato di rendere l’Italia totalmente dipendente dai mercati esteri. Tra l’altro, nel nostro sottosuolo, ci sono materiali importanti, come il "fedspato" diventato introvabile soprattutto dopo l’invasione dell’Ucraina. O la Fluorite e le Terre rare, presenti sopratutto in Sardegna. Qualcosa, per la verità, comincia a muoversi. La Regione Lazio ha rilasciato tre permessi di ricerca per la valutazione delle coltivazioni delle salamoie geotermiche nelle aree vulcaniche, che potrebbero nascondere filoni di litio. Altri permessi di ricerca sono stati dati in Sardegna per il Caolino.
Ma la vera svolta potrebbe esserci nei prossimi mesi, soprattutto dopo il decreto sulle materie prime critiche approvato dal governo giovedì scorso. Una vera e propria svolta, hanno annunciato Adolfo Urso e Gilberto Pichetto Fratin, ministri rispettivamente delle Imprese e dell’Ambiente. E, in effetti, il decreto contiene due novità importanti. La prima semplifica fortemente le procedure per la ricerca e la riapertura delle miniere, con tempi molto rapidi per il rilascio dei titoli abilitativi sull’estrazione e sui progetti di riciclo di materie prime critiche: non più di 18 mesi nel primo caso e al massimo 10 per il secondo. Ma iter celeri sono previsti anche per il rinnovo delle concessioni esistenti che saranno dimezzati e che non devono superare i 10 mesi.
La seconda novità riguarda le royalties per le concessioni minerarie di progetti strategici che saranno corrisposte allo Stato per i progetti a mare (il decreto parla di un’aliquota del prodotto pari a una percentuale compresa tra il 5 e il 7%) nonché a Stato e Regioni per quelli sulla terraferma. Le somme confluiranno nel Fondo sovrano per il Made in Italy e saranno utilizzate per sostenere investimenti nella filiera delle materie prime strategiche. Toccherà poi a un Comitato costituito presso il Mimit elaborare ogni anno un vero e proprio piano per le materie prime critiche, per valorizzare i giacimenti italiani.