Roma, 10 agosto 2022 - Quando un annetto fa Intel ha chiesto a Joe Biden di poter rilevare una fabbrica abbandonata Chengdu, in Cina, per potenziare lo sviluppo di microchip, alla Casa Bianca è suonato anche il Bat-telefono. Alla fine il colosso americano dell’high-tech – che con quella mossa stava provando a uscire dal tunnel della crisi dei semiconduttori – ha capito che al 1600 di Pennsylvania Avenue tirava davvero brutta aria ed era meglio abbandonare il piano di espansione a Est. Scampato il pericolo, lo Studio Ovale si è subito messo al lavoro per elaborare una riforma che potesse di nuovo attirare i produttori di circuiti integrati negli Stati Uniti. Il risultato? Il Chips Act firmato martedì da Biden: una mega iniezione da 280 miliardi di dollari per finanziare la ricerca e lo sviluppo nel mercato dei semiconduttori. Quasi un quinto delle risorse stanziate (52 miliardi) saranno destinate a sgravi fiscali per i produttori di chip che avvieranno (o espanderanno) attività negli Usa.
La riforma ha poi fatto scattare la tagliola contro la Cina, le cui ambizioni economiche e tecnologiche spaventano (e non poco) gli Stati Uniti. Le aziende che vogliono accedere ai finanziamenti americani, infatti, non potranno fare investimenti in Cina o "altre nazioni su cui nutriamo preoccupazioni" per almeno un decennio, a meno che non si tratti di vecchi chip destinati al mercato locale.
Una mossa che Pechino non ha gradito. "Il Chips Act è un altro esempio di coercizione economica da parte degli Usa", ha tuonato Wang Wenbin, il portavoce del ministero degli Esteri cinese. Anche se a dire il vero, gli Stati Uniti sono gli ultimi arrivati nella corsa al ri-chippaggio: la Corea del Sud, il Giappone, l’Unione Europea e altri Stati hanno approvato da tempo piani equivalenti a quello americano per convincere i produttori di circuiti integrati a investire in loco. Il bisogno di rendersi in qualche modo indipendenti dall’export, inoltre, è diventato ancora più pressante nelle ultime settimane, quando i timori di un’invasione cinese ai danni di Taiwan, che produce oltre il 90% dei microchip ad alta tecnologia, sono schizzati alle stelle. "La dipendenza da Taiepi – fa notare Ana Swanson del New York Times – è diventata per molti una minaccia alla sicurezza insostenibile".
I semiconduttori sono ovunque e fanno funzionare quasi tutti gli oggetti che usiamo quotidianamente, dallo smartphone alla lavatrice. Proprio per questo il Chips Act si è attirato (soprattutto da parte repubblicana) diverse critiche: le restrizioni – che i lobbisti di Big Tech hanno provato senza successo a sgonfiare – riguardano solo le nuove generazioni di microchip e di fatto lasciano campo aperto alla Cina nella produzione dei vecchi (e più economici) circuiti integrati che comunque continuano a essere utilizzati per automobili ed elettrodomestici. La guerra dei semiconduttori, che potrebbe essere tra le più decisive di questo secolo, è solo all’inizio.