L’inflazione in Italia supera l’8% in aprile, è ancora alta in Europa, ma differenziata, con paesi dove cresce meno, come la Spagna che ha quasi il 4%, nonostante gli aumenti dei tassi rapidamente introdotti da luglio scorso dalla Bce, dopo un decennio di tassi a zero ed anche negativi per i Bot e per i depositi delle banche in Bce. Con l’euro l’inflazione è molto più bassa rispetto a quanto avveniva con la vecchia lira che, nel gennaio del 1975, raggiunse addirittura il 25,7%. I tassi Bce, pur cresciuti, continuano ad essere più bassi di quelli di Usa, Gran Bretagna e di gran parte dei paesi del mondo. L’inflazione dovrebbe ridursi velocemente perché la quotazione europea del prezzo del gas è fortemente diminuita e venerdì scorso, al mercato di Amsterdam, registrava 36,5 euro, un sottomultiplo rispetto alle punte registrate meno di un anno fa. Anche i prezzi degli alimenti dovrebbero rapidamente ridursi, visto che nei mercati cerealicoli mondiali le quotazioni delle materie prime, innanzitutto il frumento, sono fortemente calate.
Ma quanto incidono le manovre sui tassi delle banche centrali sull’inflazione? Le banche centrali, con le decisioni di politiche monetarie, non possono fare tutto, non possono e non riescono a sostituire le politiche economiche nazionali e continentali. L’inflazione è più alta in Italia rispetto a quelle degli altri paesi dell’Europa dell’euro per motivazioni nazionali, a cominciare dall’alto debito pubblico che è la principale palla al piede della competitività italiana.
Perché le forti riduzioni dei prezzi del gas e del frumento non si ripercuotono ancora in modo rilevante sui prezzi al consumo? Le produzioni attuali si basano su approvvigionamenti di materie prime fatti mesi fa quando i prezzi erano molto superiori? Se fosse così, l’inflazione fra poco dovrebbe scendere consistentemente e non dovrebbero più occorrere altri aumenti dei tassi da parte della Bce.
Il rischio di queste strette di liquidità decise dalle banche centrali è che la ripresa economica del 2022, ora già ridotta, diminuisca nei prossimi mesi e si trasformi in recessione, con nuove crisi di imprese e con problemi per l’occupazione e per tutti i fornitori delle aziende in crisi, a cominciare dalle banche che, negli scorsi anni, hanno dovuto sopportare forti deterioramenti dei crediti e gravi perdite.
Le banche sono gli elementi più complessi e delicati, perché operano a sostegno dei più vari settori. Da oltre otto anni le banche, nell’Europa dell’euro, applicano i più rigorosi criteri della Bce e dell’Eba su più elevati requisiti patrimoniali, con severi meccanismi di vigilanza che appaiono quanto mai importanti proprio in questi mesi, di fronte alle crisi di banche in Usa e in Svizzera.
Con le strette della liquidità decise anche dalla Bce, le banche operano in un quadro molto diverso da quello del decennio scorso: ora la carenza di liquidità è causa di crisi bancarie. I rapidi cambiamenti delle politiche monetarie delle banche centrali generano nuove possibilità e rischi che pesano sulle banche, con minusvalenze nei portafogli dei titoli, che per le banche sono anche serbatoi di liquidità. Gli extraprofitti per le banche non sussistono: esse subiscono le decisioni delle banche centrali, indipendenti nei paesi democratici.
In Italia le banche continuano già da anni a pagare annualmente un’addizionale Ires del 3,5%: rispetto all’aliquota ordinaria del 24% di Ires sugli utili delle imprese (che poi sono ulteriormente gravati dall’imposta del 26% di ‘cedolare secca’ sui dividendi), le banche continuano a pagare il 27,5%, sottraendo risorse agli accantonamenti non solo per le minusvalenze sui portafogli dei titoli soprattutto di Stato, ma anche per i più stringenti modelli europei di ponderazione patrimoniale dei rischi e nell’imminenza dell’entrata in vigore dei più gravosi requisiti patrimoniali di Basilea 3+.
* Presidente Associazione Bancaria Italiana