Roma, 19 novembre 2023 – Il verdetto di Moody’s non sorprende Daniel Gros, economista tedesco profondo conoscitore dell’Italia, a capo dell’Institute for European Policymaking, il laboratorio di ricerca della Bocconi voluto da Mario Monti. Anzi invita a non abbassare la guardia.
Insomma, non siamo fuori pericolo?
"L’agenzia ha solo certificato che il Paese non è in una situazione di pericolo acuto e che la direzione degli interventi del governo è quella giusta. Ma il baratro è sempre lì, a pochi passi, il debito resta a un gradino dalla “spazzatura“".
Ma c’erano molti timori...
"In effetti c’è stato uno scivolone nell’ultima Nadef. Le reazioni dei mercati sono state immediate. Il governo se ne è accorto e ha cominciato a remare in una direzione completamente diversa".
Che cosa continua a fare paura?
"Non si fa nulla per ridurre il debito pubblico. Anzi, si aumenta ancora il deficit. In queste condizioni l’Italia continua a essere esposta alle crisi finanziarie".
C’erano le condizioni per ridurre il debito?
"Le condizioni non ci sono mai sulla carta. E il problema non è solo di questo governo. Fra il 2013 e il 2019 tutti i premier, puntualmente, hanno ripetuto ogni anno che il debito non si poteva toccare. Però poi si sono finanziati i bonus...".
Che cosa bisognava fare?
"Seguire la strada del Portogallo che ha ridotto il deficit e il debito quando era in condizioni peggiori rispetto all’Italia di oggi. Ma ora non ha problemi e continua a crescere. Servirebbero 2-3 anni di sacrifici, anche dolorosi, per tornare poi a stare bene".
A non crescere è anche l’Europa. A partire dalla Germania, in recessione. Che cosa dobbiamo aspettarci?
"L’economia continuerà a essere debole. Quanto alla Germania, sta pagando il prezzo della contrazione di alcuni settori. Come quello delle costruzioni che ha registrato una forte espansione quando i tassi di interesse erano a zero o addirittura negativi. A questo poi si deve aggiungere quel processo di trasformazione che sta coinvolgendo l’intera industria manifatturiera. Alcune imprese dovranno sparire, altre ridimensionarsi, altre ancora cambiare. È un processo che riguarda tutti i Paesi".
Perché vanno meglio le cose in Spagna e Francia?
"La Spagna ha un apparato statale che funziona un po’ meglio di quello italiano. Sono stati più veloci ed efficaci. Inoltre, dopo lo spavento determinato dalla crisi immobiliare, molte cose sono state aggiustate, non a livello legislativo, ma nei rapporti fra lavoratori e imprese. C’è stata una redistribuzione di manodopera dal settore edile a quello manifatturiero. Invece, la Francia ha conservato un vantaggio competitivo in alcuni servizi, soprattutto digitali".
Ma con l’Europa che rallenta e due guerre in corso, la Bce non farebbe bene ad allentare la morsa dei tassi?
"Lo farà quando sarà chiaro che l’inflazione è davvero diminuita. Siamo ancora lontani dal 2%".
Che cosa si può fare per spingere sulla crescita?
"C’è un problema europeo: manca una politica industriale e c’è un’iper regolamentazione che scoraggia gli imprenditori. Ma un fatto è certo: non è vero che per la crescita bisogna aumentare la spesa. Sarebbe importante investire nello sviluppo delle conoscenze tecniche dei lavoratori".