È l’inflazione a cambiare le aspettative dei lavoratori. Dopo l’incremento dell’11,3% registrato a dicembre sullo stesso mese del 2021 (a gennaio la corsa dei prezzi ha rallentato al 10,1% annuo) l’effetto comincia a farsi sentire anche nelle attese dei dipendenti.
Lavoro post pandemia
Mentre nei mesi immediatamente successivi alla pandemia i lavoratori cercavano soprattutto un equilibrio tra la vita privata e il lavoro e maggiore tempo per sé e per la propria famiglia, oggi le cose sono cambiate. Proprio a causa dell’inflazione, infatti, la preoccupazione principale riguarda la retribuzione.
Lo studio
Nel suo Workmonitor, l’agenzia per il lavoro Randstad ha chiesto a 35mila lavoratori in 34 paesi del mondo (mille in Italia) cosa vorrebbero dal loro datore. Ebbene, la risposta più frequente è un aumento: il 47%, infatti, ha detto di voler chiedere un adeguamento mensile dello stipendio che tenga conto del costo della vita, mentre il 44% si accontenta di una revisione annuale e il 32% vuole contributi per il costo dell’energia, dei viaggi o di altre spese quotidiane.
Aumenti di stipendio
Tuttavia, poco meno di uno su tre (31%) si aspetta un aumento di stipendio al di fuori della consueta revisione annuale del salario, un quarto (25%) un’indennità una tantum per il costo della vita.
Lavoro sicuro
Ma non c’è solo lo stipendio a essere in cima alla lista dei desideri dei lavoratori. Sempre secondo il Workmonitor di Randstad, anche la sicurezza del posto di lavoro è importante, come testimonia il fatto che ben il 54% dei lavoratori italiani è preoccupato per l’impatto dell’incertezza economica sulla propria occupazione e il 49% sulla propria carriera.
Meno risparmi
La richiesta che arriva con più frequenza è quella di una maggiore sicurezza occupazionale e di stabilità finanziaria. Del resto, come ha rilevato una recente ricerca della Fabi, il sindacato dei bancari italiani, il carovita ha invertito la tradizionale tendenza al risparmio degli italiani: dopo quattro anni di costanti aumenti, nel 2022 il saldo totale dei conti correnti delle famiglie del nostro Paese è diminuito di quasi 20 miliardi di euro per fronteggiare le spese correnti. Insomma, il crollo del potere di acquisto costringe gli italiani ad attingere alle loro riserve per far fronte alle maggiori uscite.
Dimissioni
Sono le aspettative economiche, poi, una delle cause principali del fenomeno delle dimissioni, che si mantiene sempre su livelli molto elevati. Come mostra l’ultima fotografia scattata dal ministero del Lavoro su 1,6 milioni di rapporti di lavoro nei primi 9 mesi del 2022, le dimissioni sono state il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021 quando ne erano state registrate poco più di 1,3 milioni.
Nuovo lavoro?
Le interviste di Randstad tra i lavoratori dipendenti hanno evidenziato che oggi il 66% non accetterebbe un nuovo lavoro se non offrisse un inquadramento come dipendente e il 60% se non offrisse uno stipendio più elevato. Il 58% direbbe no a un nuovo lavoro se influisse negativamente sull’equilibrio vita-lavoro, il 48% se non sentisse senso di appartenenza.
Sostegni
Per quanto riguarda il fronte dei sostegni ricevuti durante l’ultimo anno, i lavoratori riconoscono che un ruolo importante lo hanno giocato le imprese che sono intervenute spesso in loro aiuto. A parte il recupero dell’inflazione consentito dalla contrattazione collettiva (che però lo calcola su un paniere dal quale sono esclusi i beni energetici), negli ultimi sei mesi il 43% dei lavoratori ha ricevuto un sostegno economico straordinario per far fronte ai rincari, nella forma di un’indennità una tantum per il costo della vita (17%) o di un aumento mensile (14%), di contributi per il costo dell’energia dei viaggi o altre spese quotidiane (15%), o di un incremento di stipendio al di fuori della periodicità (9%). Se questo può aver aiutato, è anche vero che gli interventi sono giudicati insufficienti dalla maggior parte dei dipendenti.
Secondo lavoro
Ben 7 su dieci anno infatti scelto di fare qualcosa per fronteggiare il carovita, come aumentare le ore lavorate (26%) o iniziare un secondo lavoro (22%). C’è anche chi sta pensando di cambiare lavoro per ottenere uno stipendio più alto (17%) chi sta lavorando di più da casa per evitare i costi degli spostamenti (15%) o, al contrario, di più in ufficio per risparmiare sulla bolletta (14%).
Pensione e flessibilità
Un 15% sta persino valutando di posticipare il pensionamento (15%). Ma se è vero che l’inflazione ha riportato in primo piano il livello delle retribuzioni, è anche vero che la flessibilità dell’orario rimane comunque rilevante per l’83% degli italiani, mentre la flessibilità del luogo di lavoro per il 72%. Del resto, che la flessibilità sia importante lo si capisce anche dal fatto che la sua assenza è ritenuta un buon motivo per rifiutare un’offerta di lavoro: nel 35% dei casi per l’orario e nel 33% per il luogo.
Inoltre, per il 23% degli intervistati la flessibilità è stata la ragione principale per lasciare il lavoro. Su questo fronte, però, l’Italia appare ancora indietro rispetto ai confronti internazionali. Il 45% delle imprese offre già flessibilità oraria mentre il 27% l’ha introdotta nell’ultimo anno, ma questo dato risulta ancora di 8 punti sotto la media globale. Il 44% delle aziende, invece, offre flessibilità di luogo, il 25% la ha introdotta nell’ultimo anno. Anche in questo caso il divario con la media globale è di 6 punti percentuali.