Martedì 13 Agosto 2024
CLAUDIA MARIN
Economia

Lavoro, mancheranno 150 mila lavoratori fino al 2030

Tra le varie cause dell’assottigliamento della forza lavoro, spiccano il tasso di disoccupazione ai minimi storico e una differenza sostanziale tra i flussi di lavoro in entrata e quelli in uscita

Mancheranno 150 mila lavoratori fino al 2030

Mancheranno 150 mila lavoratori fino al 2030

Roma, 13 agosto 2024 – Un tasso di disoccupazione ai minimi dal 2008 e un tasso di vacancy ai massimi storici, ma, allo stesso tempo, un mismatch quantitativo tra flussi di lavoratori in entrata e quelli, più numerosi, in uscita, con un conseguente assottigliamento della forza lavoro: da qui al 2030, si prevede un deficit annuo nell’ordine di 150mila lavoratori. Difficoltà crescenti per le imprese nel reclutamento dei lavoratori, in quanto le caratteristiche di quelli disponibili non corrispondono a quelle richieste sotto il profilo delle competenze e della collocazione geografica, che indicano la necessità, oltre che di potenziare le istituzioni preposte a favorire l‘incontro tra domanda e offerta, di politiche di re-skilling e di riduzione del gender gap e del numero dei Neet. Sono questi gli elementi principali che vanno a comporre un puzzle del lavoro del nostro Paese difficile da gestire nel decennio in corso. E’ il quadro che viene fuori dall’analisi del Monitor “Il mercato del lavoro in Italia, tra record e mismatch”, realizzato da Area Studi Legacoop e Prometeia.

“La mancanza di manodopera è il primo problema”

“Dal giorno dopo della pandemia si sono manifestate davanti ai nostri occhi le gravi contraddizioni del mercato del lavoro italiano” – spiega Simone Gamberini, Presidente di Legacoop - Una domanda sostenuta in pressoché tutti i settori ha trainato le nostre imprese che, per fronteggiarla, hanno assorbito manodopera come non facevano da decenni. Quasi subito abbiamo constatato in modo palmare quel che ora con questo studio non solamente misuriamo, ma proiettiamo nel futuro prossimo. Abbassamento dei tassi di disoccupazione, ma pure disallineamento dei percorsi di istruzione e formazione rispetto alla possibile occupabilità. La mancanza di manodopera per oltre un terzo delle nostre cooperative è il primo problema per lo sviluppo aziendale, ben davanti ai costi delle materie prime e persino all’accesso al credito; in alcuni settori e territori questa percentuale lambisce il sessanta per cento”. Che fare, dunque, di fronte a questa situazione? “Occorre – incalza Gamberini - innanzitutto un cambio generalizzato di mentalità: istruzione, formazione, politiche attive del lavoro in questa fase sono la soluzione sia ai problemi delle persone sia del sistema produttivo. Un Paese che spreca le proprie risorse perché non trova il modo di valorizzarle nel posto giusto, evidentemente non funziona”.

Mancanza di personale

Sulla stessa linea anche l’analisi congiunturale completata dal Centro Studi Confcooperative a luglio su un campione rappresentativo delle 16.500 imprese associate che danno lavoro a 540.000 persone. “La mancanza di personale – avvisa Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative - è il principale ostacolo alla crescita delle cooperative, per 1 su 2 è un problema ormai strutturale a cui non sembra esserci rimedio. Da 24 mesi la scarsità di manodopera rappresenta il principale fattore che limita la competitività. Oltre 34.500 lavoratori introvabili. Erano 30.000 sei mesi fa. Investire sulla formazione è una delle poche soluzioni possibili”. Nello specifico il mismatch come principale ostacolo alla competitività: Il sistema Confcooperative subisce il mismatch tra domanda e offerta di lavoro perché ha un peso maggiore di altre associazioni imprenditoriali nei settori socio – sanitario e nell’agroalimentare. Questi i profili mancanti: operatori socio-sanitari, educatori, infermieri, addetti alla logistica e facchini, autisti con patente C, trattoristi, agrotecnici, tecnici dell'energia, personale nella sanificazione e nelle pulizie. Crisi degli stagionali in agricoltura e grido d’allarme anche nelle stalle sociali anche nel turismo dove mancano camerieri, bagnini e animatori nei villaggi. Anche nei supermercati cooperativi scaffalisti e banconisti della macelleria) non disponibili a lavorare d’estate. Nella cooperazione dell’industria e costruzioni sempre più difficile trattenere gli operai qualificati. Introvabili i falegnami. A rischio anche il settore delle costruzioni.

Mismatch tra domanda e offerta

Tornando all’analisi di Prometeia-Legacoop, il calo di oltre 2 punti percentuali del tasso di disoccupazione registrato tra il primo trimestre 2020 e il secondo trimestre 2024 (dal 9,1% al 6,9%), segnando il livello più basso da luglio 2008, ed il concomitante aumento del tasso di vacancy che è quasi triplicato, passando da 0,6% a 1,7%, indicano la presenza di un mismatch tra domanda e offerta. Su quest’ultima esercita una forte pressione, destinata a proseguire nei prossimi anni, il processo di transizione demografica che l’Italia sta attraversando. Tra il 2023 e il 2030, la popolazione totale diminuirà di 805mila unità e si accentuerà la ricollocazione tra classi di età: gli individui con almeno 65 anni di età aumenteranno di circa 1,5 milioni di unità, mentre quelli in età lavorativa (15-64 anni) diminuiranno per un ammontare pressoché corrispondente. Una pressione aggiuntiva è quella esercitata dal pensionamento dei baby boomers, destinata a crescere nei prossimi anni.

Il risultato di questa dinamica è un mismatch numerico tra il numero delle nuove entrate e il numero delle uscite dal mercato del lavoro. L’analisi di Area Studi Legacoop e Prometeia stima, da qui al 2030, un deficit annuo nell’ordine di 150mila lavoratori, per il 70% rappresentato da lavoratori maschi, come saldo tra flussi in entrata pari ad oltre 450mila unità e flussi in uscita crescenti, in media superiori alle 600mila unità.

L'influenza del livello di istruzione 

Che il fenomeno sia già in atto è dimostrato in modo evidente dalle crescenti difficoltà delle imprese a reclutare lavoratori. Nel 2023, il 40% delle imprese nel settore dei servizi e il 9% delle imprese nel settore manifatturiero segnalava la mancanza di lavoratori come un ostacolo alla produzione. Il tasso di posti vacanti (un indicatore della domanda di lavoro) è in crescita dal 2013. Il trend della domanda di lavoratori a basso livello di istruzione, però, ha cominciato a crescere più rapidamente rispetto al trend della domanda di lavoratori con livelli di istruzione più elevati. Da sottolineare, inoltre, che lo scorso anno il 45% delle posizioni pianificate era difficile da reclutare, anche qui con differenze per livello di istruzione. Per i lavoratori a basso livello di istruzione, il problema è di numerosità. Questi lavoratori costituiscono più del 50% della domanda, che è cresciuta molto negli ultimi anni. Al contrario, l’offerta non riesce a tenere il passo della domanda, anche a causa della transizione demografica.

Per i lavoratori ad alto livello di istruzione, il problema è in un disallineamento tra la loro specializzazione e quella richiesta dal mercato del lavoro. Ad esempio, se per discipline economiche, ingegneria e architettura, scienze dell’educazione l’offerta di nuovi laureati non riesce a coprire la domanda, per medicina e farmacia il mismatch è quasi nullo, mentre il rapporto si inverte, per le altre discipline, ad esempio, per le discipline umanistiche, in scienze politiche e sociali e in lingue straniere (con un’offerta che è quasi il triplo della domanda), in psicologia (offerta quasi quadrupla rispetto alla domanda).

La forza lavoro disponibile

In realtà, infatti, in Italia esiste un’ampia disponibilità di forza lavoro potenziale alla quale si potrebbe attingere, se si considera che nel 2023 il tasso di partecipazione al mercato del lavoro mentre è stato del 78,5% per gli uomini (un dato non molto lontano dalla media UE, del 79,6%), per le donne si è fermato al 59,5%, ben 11 punti percentuali in meno rispetto alla media UE (70,5%). Oltre ai disoccupati (ancora molti, circa 1.8 milioni), un numero ancora maggiore di individui è underemployed oppure inattiva. I fattori che limitano il ricorso a questo bacino di lavoratori sono principalmente due: di nuovo l’istruzione e la collocazione geografica. Per quanto attiene all’istruzione, l’analisi evidenzia come la domanda per le specializzazioni dei lavoratori non occupati con istruzione universitaria è relativamente bassa. Per la maggior parte delle specializzazioni, più della metà di questi sono donne. Per poter utilizzare queste risorse, occorre offrire programmi di re-skilling, in modo da allineare le competenze della forza lavoro disponibile con quelle richieste dal mondo del lavoro.

Dal punto di vista della collocazione geografica, l’analisi mette in risalto come esista una relazione negativa tra la percentuale di individui non occupati e la percentuale di posizioni pianificate difficili da reclutare. L’utilizzo di questo ampio bacino di lavoratori andrebbe incentivato attraverso la definizione di politiche che facilitano i movimenti tra regioni o che riallochino la domanda di lavoro nelle zone con un eccesso di offerta.

Infine, il problema dei NEET. Dopo la Romania, l’Italia è il paese europeo con la più alta percentuale di NEET, ossia di giovani tra i 20 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in alcuna attività di formazione, il 21.25%, quasi uno su due in Calabria. Nonostante la prevalenza sia maggiore nelle regioni del Sud, solo il Friuli-Venezia Giulia e la Lombardia hanno una percentuale di NEET inferiore alla media Europea, pari all’11.7%.