I Paesi nuclearisti cercano di rilanciare il ruolo dell’atomo come risposta alla crisi climatica. In una dichiarazione congiunta alla Cop28, una ventina di Paesi, tra cui Usa, Francia, Canada, Regno Unito, Giappone, Polonia, Corea ed Emirati Arabi, hanno chiesto di triplicare la quota di nucleare nella produzione elettrica mondiale entro il 2050 – quindi di passare dal 9,8 a circa il 30% – al fine di ridurre la dipendenza dal carbone e dal gas. L’annuncio è stato fatto da John Kerry, inviato Usa per il clima, in compagnia di diversi leader tra cui il presidente francese Emmanuel Macron. Tuttavia, Cina e Russia, i principali costruttori di centrali nucleari al mondo, non sono tra i firmatari.
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Triplicare la quota da qui al 2050 sembra una impresa quasi impossibile, considerando il fatto che l’età media dei 412 reattori operativi nel mondo (28 in meno del picco del 2002) è alta (31 anni, con 105 oltre i 40 anni) e molte unità, seppure allungandone la vita media, dovranno essere sostituite anche solo per mantenere lo share attuale. A questo si aggiunge il problema dei tempi (media 6,8 anni, ma per i grandi Epr francesi di terza generazione come quello costruito in Finlandia si sono superati i 12 anni) e dei costi (passati per gli Epr da 3,4 a 11 miliardi di euro).
Oggi, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, in Europa il costo di un impianto nucleare è di 71 dollari a MWh, come un impianto a gas, mentre un impianto fotovoltaico di grossa taglia produce a 70 dollari MWh e un eolico a terra a 55.
Una grande speranza dei nuclearisti sono gli Smr, piccoli reattori modulari, più veloci da costruire e con una serie di sistemi di sicurezza anche intrinseca. Ne esistono ben 82 tipi diversi, con varie tecnologie e taglie, ma solo due (uno “navale“ russo e uno cinese) sono in rete. Altri entreranno in funzione nei prossimi anni, ma le loro performance sono da valutare. E sui costi il dibattito è aperto specie dopo che il NuScale, il progetto americano più avanzato, è stato cancellato lo scorso settembre.
Non a caso Giorgia Meloni, a differenza di Matteo Salvini, è più che prudente e guarda piuttosto alla prospettiva potenzialmente più interessante, il nucleare da fusione. "Su queste questioni – ha detto ieri a Dubai – bisogna essere molto pragmatici e non ideologici: io non ho preclusioni su nessuna tecnologia che possa essere sicura e che possa aiutarci a diversificare la nostra produzione energetica. Non sono però certa che oggi cominciando da capo sul tema del nucleare l’Italia non si troverebbe indietro, ma se ci sono evidenze del fatto che si possa invece avere un approccio con un risultato positivo sono sempre disposta a parlarne". Ha proseguito: "Credo piuttosto che la grande sfida italiana, anche se è un po’ più da venire, sia il tema della fusione nucleare. Potrebbe essere la soluzione domani di tutti i problemi energetici, ed è una di quelle tecnologie sulle quali l’Italia è più avanti di altre. È un elemento sul quale troverete sempre il mio massimo sostegno, perché io credo che l’Italia debba avere la capacità di pensare in grande e questo è uno di quei temi in cui può farlo".
Quello a cui Meloni guarda è la Commonwealth Fusion Systems (Cfs), nel quale ha molto investito Eni e che sta costruendo l’impianto Sparc, che sarà pronto nel 2025, e dovrebbe fare da banco di prova per lo sviluppo di Arc, la prima centrale a fusione su scala industriale, la cui realizzazione è prevista entro i primi anni del 2030. Se funzionasse e i costi fossero accettabili, come sperano Cfs ed Eni, cambierebbe tutto.