Roma, 16 gennaio 2025 – La crescita degli occupati degli ultimi anni fa migliorare “anche” la stabilità del sistema previdenziale. A questa conclusione arrivano i ricercatori del Centro studi e ricerche di Itinerari Previdenziali nel XII Rapporto, presentato oggi alla Camera. Tre, nello specifico, gli indicatori sulla sostenibilità delle pensioni italiane: aumenta, ancora una volta, il numero di pensionati, che salgono dai 16,131 del 2022 ai 16,230 milioni del 2023 (+98.743); dopo la forte crisi causata da Covid-19, prosegue la netta risalita del tasso di occupazione, che a fine 2023 sfiorava il 62%, pur restando tra i più bassi d’Europa; trainato soprattutto dal numero degli occupati, risale fino a quota 1,4636 il rapporto tra attivi e pensionati, che fa segnare il miglior dato di sempre nella serie storica tracciata dal Rapporto.
Sono numeri – hanno spiegato i relatori nel corso della presentazione del Report – che descrivono un sistema sì in equilibrio ma la cui stabilità nei prossimi anni dipenderà sia dalla capacità di porre un limite alle troppe eccezioni alla riforma Monti-Fornero e all’eccessiva commistione tra previdenza e assistenza cui si è assistito negli ultimi anni, sia da quella di affrontare adeguatamente la transizione demografica in atto. Ma vediamo gli aspetti centrali del Rapporto. Pensionati e prestazioni
Dopo un trend positivo avviatosi nel 2009 e proseguito in modo costante fino al 2018 per effetto delle ultime riforme previdenziali che hanno innalzato gradualmente requisiti anagrafici e contributivi, il numero di pensionati italiani si mostra di nuovo in risalita: al 2023, i percettori di assegno pensionistico sono 16.230.157, a fronte dei 16.131.414 nel 2022 e dei 16.004.503 del 2018, anno in cui si era toccato il valore più basso di sempre. Un aumento che dipende dalle molteplici vie d’uscita in deroga alla Fornero introdotte dal 2014 in poi e culminate negli ultimi anni con l’approvazione dapprima di Quota 100 nel 2019 e, a seguire, di Quota 102 e Quota 103.
Su 3,63 residenti italiani almeno uno è pensionato, dato obiettivamente molto elevato se si tiene conto che il picco dell’invecchiamento della nostra popolazione verrà toccato nel 2045. Degli oltre 16 milioni di pensionati italiani il 51,6% è rappresentato da donne, tra l’altro destinatarie dell’85,8% del totale delle pensioni di reversibilità (con quote della pensione diretta del dante causa variabili tra il 60% e il 30%, in base al reddito del superstite).
Venendo poi al numero di prestazioni pensionistiche, al 2023 ne risultano in pagamento 22.919.888, con una crescita di oltre 140mila trattamenti (+0,65%) rispetto alle 22.772.004 dello scorso anno.
A prescindere dalla tipologia, in media, ogni pensionato riceve 1,421 prestazioni. Ciò significa che è in pagamento una prestazione ogni 2,574 abitanti, vale a dire circa una per famiglia; valore tutto sommato stabile rispetto alle ultime rilevazioni ma che salirebbe addirittura a una prestazione ogni 2,1 abitanti considerando nel computo anche il reddito di cittadinanza (ancora in vigore seppur con modifiche nel 2023) e i trattamenti assistenziali erogati dagli enti locali.
Occupati
Dopo il difficile biennio 2020-2021, caratterizzato da Covid-19 e dagli effetti sul mercato del lavoro delle misure di contenimento dei contagi, è proseguita anche nel 2023 la crescita del numero di occupati, risalito fino a 23.754.000 unità, valore nettamente superiore a quello pre-pandemico (da considerare in ogni caso anche la variazione nel metodo di rilevazione Istat che non tiene più conto di lavoratori in CIG e inattivi da oltre 3 mesi). E se lo slancio del nostro mercato del lavoro è proseguito anche nel 2024, tanto che al 30 ottobre scorso i dati sullo stock di occupazione indicavano 24.092.000 occupati, per un tasso pari al 62,5%, con solo poco più di 24 milioni di lavoratori su una popolazione in età da lavoro di circa 38 milioni di individui l’Italia resta però tra le nazioni peggiori in Europa.
Rapporto attivi/pensionati
Nonostante l’incremento del numero di pensionati con il miglioramento della situazione occupazionale si attesta a 1,4636 il rapporto attivi/pensionati, valore fondamentale per la tenuta di un sistema pensionistico a ripartizione come quello italiano. Si tratta del miglior dato di sempre tra quelli registrati dal Rapporto, benché ancora al di sotto di quell’1,5 già indicato nelle precedenti pubblicazioni come soglia minima necessaria per la stabilità di medio-lungo termine della nostra previdenza obbligatoria. Le previsioni per gli anni a venire sono quelle di un ulteriore lento ma progressivo miglioramento ma, affinché queste stime si concretizzino, sarà innanzitutto necessario investire in politiche industriali che rilancino la stagnante produttività del Paese, capitalizzando le risorse del Pnrr, e migliorare quelle attive per il lavoro, soprattutto allo scopo di arginare il fenomeno del mismatch tra domanda e offerta. Altrettanto rilevante, poi, tenere sotto controllo le uscite anticipate dal mercato del lavoro, garantendo la sostenibilità del sistema anche ai più giovani, nell’ambito di quel patto intergenerazionale che vede appunto le pensioni di quanti sono già in quiescenza pagate con i contributi versati dai lavoratori attivi.
"Volendo trarre qualche conclusione – spiega il presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, Alberto Brambilla – malgrado i molti “catastrofisti” che parlano di un sistema insostenibile all’interno dell’attuale quadro demografico, i conti della nostra previdenza reggono, e dovrebbero farlo anche tra 10-15 anni, nel 2035/40, quando la maggior parte dei baby boomer nati dal Dopoguerra al 1980 – coorti molto significative in termini pensionistici, in termini previdenziali assai significative data la loro numerosità – si saranno pensionate”.
Un equilibrio sottile, dunque, che potrà essere mantenuto nel tempo solo a patto di saper compiere, in un Paese che invecchia, scelte oculate in materia di occupazione, anticipi ed età di pensionamento. “Per prima cosa – spiega il professor Brambilla – occorrerà un’applicazione puntuale dei due stabilizzatori automatici già previsti dal nostro sistema, vale a dire adeguamento dei requisiti di età anagrafica e dei coefficienti di trasformazione all’aspettativa di vita, limitando da una parte le numerose forme di anticipazione oggi previste dall’ordinamento, e, dall’altra, premiando in termini di flessibilità i nastri contributivi più lunghi”.
Ribadita pertanto dagli estensori del Rapporto la necessità di bloccare l’anzianità contributiva agli attuali 42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 per le donne, con riduzioni per donne madri e precoci, e di prevedere un superbonus per quanti scelgono di restare al lavoro fino ai 71 anni di età.
Quello che serve, però, a livello complessivo è un serio cambio di rotta da parte del nostro Paese che al momento naviga a vista, senza una bussola, dinanzi alla più grande transizione demografica di tutti i tempi, con grande parte della spesa pubblica indirizzata verso sussidi e assistenzialismo (frenando le possibilità di crescita), quando invece – anche alla luce di un debito pubblico che a breve potrebbe sfondare la soglia dei 3.000 miliardi di euro – la doverosa priorità sembrerebbe essere una seria revisione dei propri modelli produttivi e del proprio mercato del lavoro.