Roma, 18 giugno 2023 - La ragnatela di seta. L’Italia, come una mosca caduta in trappola, sta cercando di capire come liberarsi dalla tela cinese. Nel 2019 il governo Conte ha attivato un memorandum d’intesa sulla Nuova via della seta, che nel resto del mondo conoscono come la Belt and Road Initiative. Oggi quella firma viene considerata dal governo Meloni "un errore".
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Golden Power
Il rischio che un parteniariato, comunque sgradito agli Stati Uniti, si trasformi in vassallaggio è considerato troppo alto. E così, dopo i vari strappi sulla possibile Briexit, l’uscita dell’Italia dalla Belt and Road Initiative, venerdì è arrivato l’ennesimo stop all’espansione industriale cinese nel nostro Paese: il governo ha infatti deciso di utilizzare il golden power , per mettere al riparo degli artigli del Dragone le tecnologie cyber di Pirelli. "Una mossa che Pechino non vede sicuramente di buon occhio – spiega la sinologa Silvia Menegazzi della Luiss – ma che non dovrebbe avere particolari ripercussioni. La Cina stessa fa molta attenzione a tutelare i propri interessi nazionali. Le relazioni bilaterali dipendono molto di più dal memorandum che dal golden power ".
Il memorandum
Ed è proprio la Briexit la partita più importante. Anche perché il memorandum, basta guardare i numeri, più che un accordo economico è un’intesa politica (e per questo considerata da Washington anche più pericolosa). Dal 2019 le esportazioni italiane in Cina sono cresciute di appena 3,4 miliardi (passando da 13 a 16,4 miliardi), mentre le importazioni cinesi sono cresciute di 25,8 miliardi (31,7 miliardi nel 2019 contro i 57,5 miliardi del 2022).
Gli investimenti
Ma sono soprattutto gli investimenti di Pechino all’estero (infrastrutture, fabbriche, etc) che dovrebbero farci riflettere: tra il 2000 e il 2022 la Cina ha scommesso appena 16 miliardi di euro sul nostro Paese, unico nel G7 ad aver firmato il memorandum. Nello stesso periodo ha investito 17 miliardi in Francia, 32 in Germania e 81,4 nel Regno Unito. Londra, Parigi e Berlino negli ultimi 10 anni hanno sempre intercettato circa il 60% dei fondi cinesi destinati ai Paesi europei. Dopo la firma del memorandum non la tendenza è rimasta inalterata. E anche sul mercato più promettente, quello delle batterie elettriche, siamo praticamente degli outsider per il Dragone: nessuno dei grandi investimenti (oltre i 250 milioni di euro) annunciati negli scorsi mesi riguarda il nostro Paese. "Da un punto di vista politico – fa notare Menegazzi – il memorandum è risultato molto più conveniente per la Cina che per l’Italia. Per loro avere un Paese fondatore della Ue nell’accordo era davvero importante".
La paura
E anche la paura nei confronti di Pechino è decisamente poco economica. "Negli ultimi due-tre anni a livello internazionale la Cina è maggiormente percepita come un pericolo, fatto che ovviamente si ripercuote anche sulle relazioni con l’Italia. Gli Usa e l’Unione europea hanno mandato chiari segnali sul tipo di rapporto che c’è con Pechino. Il problema è che la Cina sta continuando a fare quello che sta facendo ormai da 20 anni. E forse potevamo accorgercene anche prima di firmare il memorandum"
Taiwan
E alle preoccupazioni per un’espansione economica, negli ultimi mesi si sono aggiunte anche quelle di un’espansione geografica: le manovre militari dentro alle acque territoriali di Taiwan sono ben più di una semplice minaccia. E il fatto che la Cina faccia shopping, comprando o strappando concessioni, di infrastrutture strategiche (industrie, porti, 5G) è diventato un tema caldo con gli Usa.
Italia al bivio
Nel marzo del 2024 il memorandum d’intesa tra Cina e Italia, se nessuna delle due parti avrà da ridire, verrà rinnovato automaticamente. "Se dovessimo uscire – fa notare Menegazzi – ci saranno delle ripercussioni. La Bri è il progetto per eccellenza della politica estera di Xi Jinping".
Il resto del puzzle
Anche perché, ed è sempre bene sottolinearlo, l’Italia resta un minuscolo vasetto di miele per Winnie Pooh (il malevolo nomignolo affibbiato al presidente cinese). Sono ben 148 i Paesi che hanno firmato un memorandum sulla Bri. Nuove infrastrutture made in China per circa 543 miliardi di dollari sono state costruite soprattutto in Asia, Africa e Sud America (in Italia siamo sui 3,3 miliardi). E non sono state regalate: tanto che tra il 2006 e oggi la Cina è diventata il maggior creditore dei Paesi in via di sviluppo, che devono restituire a Pechino la bellezza di 110 miliardi di euro. Un’enorme somma di denaro che è anche un ingente capitale politico.