Milano, 24 gennaio 2024 – Non serve scomodare i grandi economisti, gli basta appellarsi alla saggezza popolare. "A casa mia si dice: l’arroganza è sempre un peccato, nel business è un peccato mortale". E, fuor di metafora, Antonio Gozzi chiarisce: "Noi europei non siamo più i primi del mondo, non possiamo dettare le regole a nessuno. Inoltre, il nostro è un mercato di vecchi e non è neppure il più ricco. Serve un cambio culturale e di paradigma". Lo impongono, dice l’imprenditore, presidente della Duferco e di Federacciai, il quadro economico e quello geopolitico, oggi particolarmente gravoso per il mondo delle imprese a causa dei conflitti e delle transizioni in atto. "La crisi del Mar Rosso – precisa – sta creando una pericolosa strozzatura. Oltre il 40% delle merci dirette all’Europa passa di lì. E i primi problemi sono già iniziati. I prezzi delle assicurazioni, per esempio, sono esplosi. Per non parlare del rischio di una risalita dell’inflazione. Servono interventi non solo di difesa delle navi. Questo fatto sta causando una forte competizione sleale delle navi russe e cinesi, che non vengono colpite, nei confronti delle navi occidentali".
Cosa suggerisce?
"Di provare a trasformare questa crisi, che si innesta su criticità strutturali, in una possibilità di prospettive positive per tutto il Mediterraneo. Il punto ora sono gli attacchi alle navi in transito ma il problema è più generale".
Chiarisca.
"Pensiamo a quanto costa trasportare merci dall’Asia all’Europa e che vantaggio sarebbe far risparmiare agli esportatori 15 giorni di navigazione. Molti Paesi potrebbero trasferire le loro attività in Tunisia, in Spagna, in Italia. L’instabilità che si è creata nell’area potrebbe accelerare questo processo. È una grande occasione per il Mediterraneo ma serve intercettare queste istanze e attivare politiche di attrattività. Favorire un grande reshoring mediterraneo".
Il ruolo dell’Italia?
"Decisivo. E con un punto di partenza: il piano Mattei già varato. Il governo Meloni dovrebbe considerare questo elemento e includerlo nelle strategie avviate".
Il suo giudizio sulle politiche del governo italiano?
"C’è un tentativo di varare politiche industriali, e questo è positivo. Il ministero delle Imprese si sta occupando della manifattura è anche questo è importante. Sull’elettrosiderurgia, come ho già detto al ministro Adolfo Urso, serve una politica per fattori. Che significa occuparsi del prezzo dell’energia e del rottame. Il resto lo sappiamo fare da soli".
La siderurgia, un nodo critico.
"Dove ci sono punti di crisi, cioè Taranto e Piombino, non dobbiamo lasciare spazio a scorribande straniere, magari favorite da aiuti di Stato. Bisogna tenere conto della presenza di una siderurgia italiana e dei possibili conflitti d’interesse".
Come procede la transizione ecologica?
"Gli impianti siderurgici italiani sono campioni di decarbonizzazione. In Europa il 60% degli stabilimenti va a carbone e il 40 con forni elettrici: l’opposto che da noi. Stiamo investendo in rinnovabili: in 2 anni il settore ha investito oltre 2 miliardi, io 250 milioni solo a San Zeno. L’Europa sugli altiforni sta sbagliando. Togliere competitività alla siderurgia significa assestare un duro colpo all’automotive".
Lei non è tenero con l’Europa.
"L’Ue sta promuovendo misure basate su posizioni ideologiche che rischiano di distruggere la manifattura nel giro di 10 anni. Per questo serve un cambio di paradigma, un salto culturale".
Dove sbaglia la politica Ue?
"Non capiscono il valore economico e di inclusione sociale garantito dal sistema industriale. Distruggerlo non significa solo far crollare il Pil, ma minare l’inclusione sociale. Politiche come quelle sul packaging o la ceramica non minacciano soltanto le singole imprese, ma tutte le filiere che stanno sotto. Io a Bruxelles sono stato a lungo e ho percepito un atteggiamento di fastidio rispetto al manifatturiero".
Posizioni ideologiche?
"Sono il combinato disposto di tre precise posizioni: un estremismo ambientalista alla Greta Thunberg, che è essenzialmente anticapitalista; poi un iperliberismo mercatista e globalista che esclude ogni forma di protezione che non sia di matrice ambientalista. E infine la finanza, che ha trasformato il green in un business. Avanti così e sarà un suicidio perfetto".
La soluzione?
"Uno choc, come quello vissuto dall’Europa con l’invasione dell’Ucraina. Nel caso della transizione green basterebbe un’analisi su costi e benefici che mostrasse all’opinione pubblica cosa succederà se le misure attualmente previste non verranno cambiate".