Roma, 17 luglio 2023- Alla vigilia dell’approdo al Senato della delega fiscale, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti (e vicepremier) Matteo Salvini rilancia la proposta di un condono e scoppia la polemica. L’opposizione, Pd e M5s in testa, attacca: “Un insulto a chi paga le tasse”. Italia viva sottolinea invece la contraddizione dell’annuncio di Salvini. Così per esempio il deputato Davide Faraone: “È al governo, quello che dice potrebbe benissimo farlo. Ma nella riforma fiscale non c’è traccia delle cose di cui blatera. Alla fine gli verrà chiesto il conto e sarà salato”.
Pungente il commento del deputato renziano Luigi Marattin: "Salvini fa interviste in cui chiede il condono tombale, poi però l’articolo 16 della delega fiscale contiene un principio – giusto – di delega che consente di pignorare automaticamente i conti correnti degli evasori”. E sulle contraddizioni fiscali pubblichiamo un intervento di Agostino Di Maio, direttore generale di Assolavoro (associazione nazionale di categoria delle Agenzie per il Lavoro), riguardo al paradosso di alcuni versamenti Iva, non dovuti, che però l’Agenzia delle Entrate non rimborsa: il principio è che versare un tributo non dovuto equivale alla sua evasione. Con tanto di sanzioni.
C’era una volta un Paese, che chiameremo Fiscolandia, i cui sudditi da oltre vent’anni versavano un tributo alle casse del Re. Un bel giorno giunsero al villaggio alcuni esattori appartenenti alla temutissima Agenzia che riscuoteva le tasse (A.d.E, nome omen), i quali, non trovando nulla di irregolare, eccepirono che quelle tasse non avrebbero dovuto essere versate.
"Ma come?" – esclamarono, stupiti, i sudditi – "è forse cambiata la legge? Noi versiamo da sempre questo tributo al Signore dell’Ade". "La norma è rimasta la stessa" – risposero gli emissari – "ma è cambiata la nostra interpretazione della Legge". "Ma allora ci restituite quello che abbiamo versato in questi anni?", chiese un giovane, prontamente fulminato dallo sguardo dall’anziano capo villaggio, che aveva intuito che le cose si mettevano male. "Affatto!" – sentenziarono gli emissari dell’AdE – "anzi, poiché la Legge dice che versare un tributo non dovuto equivale alla sua evasione dovrete versare un importo come sanzione pari al tributo stesso più le relative sanzioni per i cinque anni addietro". Fine della favola triste.
Passando dal mondo della fantasia all’attualità quello che abbiamo raccontato in forma aneddotica è esattamente ciò che accade in Italia da almeno un lustro tra le Agenzie per il Lavoro e l’Agenzia delle Entrate, impegnate in un contenzioso che ha registrato negli anni numerose sentenze, nei diversi gradi di giudizio, sinora prevalentemente favorevoli alle Agenzie.
Sin dagli albori (1997, anno del famoso “Pacchetto Treu”), le Agenzie hanno assoggettato ad Iva le proprie attività di formazione convinte della loro natura decisamente “privatistica”. Dopo oltre venticinque anni di applicazione dell’Iva (e di versamento del tributo nelle casse dello Stato) l’AdE ha cominciato ad eccepire, peraltro a macchia di leopardo sul territorio nazionale avendo questa vicenda un epicentro prevalentemente lombardo (prima anomalia), la natura “pubblicistica” dell’attività formativa, assimilabile quindi al sistema di istruzione, e conseguentemente la non applicabilità dell’Iva (regime di esenzione).
Senza entrare in questa sede nel merito di questioni fiscali sicuramente complesse vengono al pettine diversi interrogativi “di sistema”, tutti rilevanti: può un Paese che si racconta come moderno avere un intero settore produttivo (quasi 600mila lavoratori/mese, 733 milioni di ore lavorate, 9,6 miliardi di monte retributivo nel 2022) ostaggio di uno stato di incertezza amministrativa come quello descritto? Può il suddetto Paese permettersi una Amministrazione finanziaria che effettua, a legislazione invariata, un revirement interpretativo di centottanta gradi ponendo integralmente sulle spalle del contribuente (rectius : sanzionandolo) i relativi costi rifiutando ogni dialogo per provare quantomeno ad “accompagnare” un’intera filiera produttiva verso un nuovo regime?
Quanto a lungo può un sistema di imprese distribuito su tutto il territorio nazionale (e al quale viene oggi anche richiesto di contribuire in maniera decisiva alla costruzione di un sistema di servizi al lavoro moderno ed efficace) subire lo stillicidio di accertamenti e sentenze di diverso segno?
Quanto sono imparziali modalità di accertamento il cui livello di affidabilità appare talvolta condizionato più dal raggiungimento di obiettivi di budget interni (grazie a corpose sanzioni tanto mirabolanti sulla carta quanto irraggiungibili sul piano pratico) che dalla sensata applicazione della norma? In questi anni i tentativi per trovare una soluzione “di sistema” che consentisse di dare, per il passato e per il futuro, alle Agenzie-contribuenti le necessarie certezze non sono andate a buon fine avendo ricevuto dall’Amministrazione risposte prima contraddittorie e poi respingenti su tutta la linea. La parola è quindi passata ai giudici di merito con un affastellarsi di sentenze di diverso segno, un incremento della confusione e grande dispendio di risorse e di energie.
Ed è qui – tornando alle polemiche di questi giorni – che viene chiamata in ultima istanza in causa la responsabilità anche della Politica che dovrebbe farsi carico di situazioni come questa con l’obiettivo di garantire ai cittadini un’amministrazione fiscale imparziale ed efficiente ma anche capace di accompagnare imprese e contribuenti nell’adempimento dei propri obblighi fiscali in termini di certezza, ragionevolezza, trasparenza.
* Direttore generale di Assolavoro