Lunedì 30 Settembre 2024

"Le Pmi restano l’ossatura del sistema produttivo"

Aprire le aziende al private equity e ai mercati borsistici può favorire il passaggio generazionale e potenziare la competitività. Simone Strocchi di Electa punta a sostenere la crescita delle Pmi italiane preservandone l'italianità, promuovendo investimenti mirati e consolidamenti settoriali.

"Le Pmi restano l’ossatura del sistema produttivo"

Aprire le aziende al private equity e ai mercati borsistici può favorire il passaggio generazionale e potenziare la competitività. Simone Strocchi di Electa punta a sostenere la crescita delle Pmi italiane preservandone l'italianità, promuovendo investimenti mirati e consolidamenti settoriali.

"APRIRE LE PROPRIE aziende al private equity, cioè a fondi di investimento, o ancor meglio ai mercati borsistici, può essere la scelta giusta sia per garantire il passaggio generazionale, sia per migliorare la propria posizione competitiva. E le seconde generazioni sono molte attente a questa possibilità. Ma il mio impegno prioritario è investire in imprese per supportarne la crescita preservandone l’italianità, con un sogno: creare una piattaforma di investimento che raduni pochi punti percentuali delle ricchezze finanziarie delle grandi famiglie italiane per favorire la crescita e lo sviluppo delle Pmi che restano l’ossatura del nostro sistema produttivo". Simone Strocchi (nella foto a destra), alla guida del gruppo Electa di Milano che ha fondato – formando un team con grande esperienza in ambito di mercati finanziari e realtà corporate domestiche ed internazionali – guarda con fiducia al tessuto delle piccole e medie imprese italiane dal suo privilegiato punto di osservazione.

Dottor Strocchi, il Ddl capitali ha incentivato l’accesso a mercato di Pmi, spesso anche troppo frazionate in micro cap. Come sta andando alla prova dei fatti?

"Il sistema di norme introdotte per semplificare e supportare l’accesso al listino di Pmi presenta molti spunti proposti dalla comunità finanziaria e imprenditoriale nazionale. È buona cosa, ma se non trova complemento con una spinta agli investimenti rischia di determinare un eccesso di ingresso in Borsa di piccole società che si quotano con market cap e flottanti risibili in un mercato che non ha risolto il problema della sua aridità di investitori, che restano prevalentemente fondi aperti che subiscono riscatti da parte di investitori attratti da strumenti finanziari a reddito fisso e, in una corsa alla liquidità, servono titoli di Pmi spesso eccellenti a valori mortificati, a vantaggio di sponsor di delisting (quasi sempre non nazionali). In questa emorragia di liquidità a farne le spese sono i titoli ’illiquidi’ che sono quelli di società sotto il miliardo di euro di market cap (ovvero delle maggior parte delle italiane), sempre più disertati dai gestori ossessionati dal rispetto di indici di liquidità giornaliera".

Che cosa serve allora?

"Serve una reazione sistemica per popolare il mercato dei cosiddetti ’private investor in public equity’, che sappiano tornare a investire su analisi dei fondamentali delle imprese senza inseguire indici. Così come serve proporre consolidamenti di settore, evitando una proposta polverizzata in microcap. Il rischio è di vederci perdenti in un ineludibile trasferimento di governance e sensibilità italiane sulle nostre migliori imprese da cui può conseguire, prima o dopo, una irreparabile de-industrializzazione del Paese".

Ci sono esperienze positive al riguardo?

"Noi abbiamo trasformato poche centinaia di milioni di euro in billions, sostenendo con formule di prebook l’accesso in Borsa e la crescita di una selezione di imprese tra cui Sesa, Italian WineBrands, Pharmanutra, DigitalValue, Magis, Next Geo".

Qual è oggi l’atteggiamento delle Pmi rispetto all’apertura al mercato dei capitali?

"Purtroppo, tranne che per pochi casi ’illuminati’, si divide spesso tra un approccio opportunistico e una irrisolta resistenza. Gli opportunisti raccolgono qualche milione di euro sostenendo costi di quotazione che vengono dimezzati da bonus Ipo. Vi è poi una resistenza di tante belle società ad aprire il proprio capitale che deve essere superata al più presto perché le nostre filiere, i nostri distretti, hanno bisogno di vedere sponsorizzare la crescita, anche per aggregazione, dei player di riferimento a tutela dell’intero ecosistema di appartenenza".

Come stimolare l’aggregazione tra imprese?

"Estenderei il ’bonus Ipo’ a parziale rimborso (per defiscalizzazione) di costi di M&A, laddove si consolida in un gruppo quotato sul listino borsistico. Abbiamo bisogno di incentivare la proposta di consolidati di settore sui mercati borsistici. Aggregarsi in un conglomerato quotato consente a tutti gli imprenditori attivi aderenti di rimanere proprietari e partecipi della gestione di gruppo".

Si può pensare di favorire in Italia la costituzione di poli di filiera distretti?

"Assolutamente sì. È necessario, quanto vitale, per la nostra economia e quindi per la prosperità della nostra collettività. I nostri distretti e le nostre filiere hanno già dimostrato di saper superare momenti difficili, come quello del Covid, per attitudine solidale della catena o sistemica, spesso supportata dai leader di riferimento. Servono portatori di capitali costruttivi, non solo da traders".

Nei patrimoni di famiglia e nelle loro holding ci sono importanti stock di liquidità. Come li si potrebbe convogliare nel mercato finanziario?

"Le holding di famiglia hanno al loro attivo centinaia di miliardi di euro. Sia in liquidità, che qualificati in partecipazioni rilevanti delle imprese costituite dai padri fondatori che hanno determinato la fortuna della ’dinastia’. Dobbiamo agevolare l’indirizzo di investimenti di holding a sostegno di Pmi di grande potenziale. Una sfida non solo da supportare con qualche adeguamento normativo o di defiscalizzazione riformulando i Pir, ma anche con una chiamata alle responsabilità e una convinta presentazione di opportunità di investimento nella nostra economia reale".