I DAZI TORNANO al centro del dibattito economico e politico, risvegliando timori simili a quelli del passato. Durante la presidenza Trump, l’introduzione di tariffe su una vasta gamma di beni scosse i mercati, generando incertezze diffuse. Tuttavia, il vero “cigno nero” che travolse l’economia globale non fu rappresentato da queste misure, bensì dalla pandemia di Covid-19, un evento imprevisto che ridefinì profondamente le dinamiche economiche mondiali. Anche l’amministrazione Biden, pur criticando apertamente l’approccio, non ha invertito la rotta. Al contrario, ha mantenuto molti dei dazi imposti durante l’era Trump, arrivando in alcuni casi persino ad aumentare le tariffe, come nel caso del 100% imposto sulle importazioni di auto elettriche cinesi. Questo sottolinea come i dazi non siano più un tema legato esclusivamente al “trumpismo”, ma un tassello consolidato nella politica economica americana.
La storia dei dazi di Trump affonda le radici già nel 2017, quando il Canada fu il primo paese a subire l’impatto di una politica commerciale più aggressiva, con tariffe comprese tra il 3% e il 24% sul legname tenero canadese. Questo settore, cruciale per l’edilizia statunitense, si trovò al centro di una battaglia tariffaria che ne aumentò i costi. Anche oggi si parla di possibili nuove tariffe contro Canada, Messico e Cina, anche se al momento si tratta per lo più di annunci. Nel 2018, molti analisti si chiedevano già se la guerra commerciale avrebbe innescato una recessione globale, ma i dati suggeriscono che l’impatto fu meno drammatico.
Certamente, l’effetto della FED nel 2019 non può essere ignorato. In un contesto di rallentamento economico globale, in parte causato dalle tensioni commerciali, la Federal Reserve agì con una politica monetaria accomodante. Con un’inflazione core PCE al di sotto del target (1,6%-1,8%) e segnali di inversione momentanea della curva dei rendimenti, la FED tagliò i tassi tre volte durante l’anno, portandoli all’1,50%-1,75%, con l’obiettivo di sostenere la crescita economica.
Dalla vittoria di Trump, i mercati europei hanno mostrato una vulnerabilità particolare alle sue politiche tariffarie. Questo non sorprende, dato che l’Unione Europea è uno dei principali attori del commercio globale, rappresentando circa il 17% delle esportazioni e il 15% delle importazioni mondiali. Nel 2023, gli Stati Uniti sono stati il principale partner commerciale per le esportazioni dell’Ue (19,7% del totale) e il secondo per le importazioni (13,7%). Osservando i dati storici, tra il 2016 e il 2023, il commercio tra Ue e Stati Uniti (nel grafico in basso) ha mostrato una tendenza al rialzo, con un saldo commerciale in crescita da +113,6 miliardi di euro nel 2016 a +151,9 miliardi di euro nel 2020, fino a raggiungere +155,8 miliardi di euro nel 2023. Questi numeri mostrano che, nonostante l’imposizione di dazi e le tensioni commerciali durante l’amministrazione Trump (2017-2020), il saldo commerciale è rimasto positivo. I dazi hanno avuto impatti su alcuni settori specifici, ma il commercio complessivo non è stato drasticamente penalizzato come molti temevano. Oltre agli effetti diretti, i dazi hanno prodotto dinamiche meno visibili ma altrettanto rilevanti. L’innovazione e il reshoring, per esempio, sono stati in parte accelerati dalle tensioni commerciali. Aziende del settore tecnologico hanno diversificato la produzione fuori dalla Cina, investendo in mercati emergenti come il Vietnam e l’India, mentre altre hanno riportato produzioni negli Stati Uniti per ridurre la dipendenza da fornitori esteri.
Guardando sul versante opposto, quello cinese, l’impatto della guerra commerciale con gli Stati Uniti ha spinto Pechino a ridefinire le proprie priorità economiche. Durante l’amministrazione Trump, i dazi su beni cinesi per un valore di oltre 360 miliardi di dollari hanno colpito settori strategici, dall’elettronica ai macchinari, fino ai prodotti agricoli. In risposta, la Cina ha introdotto contromisure su beni statunitensi, come soia, carne suina e automobili, infliggendo danni significativi agli agricoltori americani e accentuando le tensioni bilaterali. Pechino ha poi accelerato i suoi piani di autosufficienza economica e tecnologica, come dimostra, tra le altre cose, la recente decisione di Xiaomi di sviluppare un proprio chip per ridurre la dipendenza dall’industria americana dei semiconduttori. E parallelamente, ha puntato su nuovi partner commerciali strategici attraverso la firma del Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), il più grande accordo di libero scambio al mondo, che coinvolge paesi come Giappone, Corea del Sud e Australia, e rafforzando dell’alleanza dei BRICS.
Le tariffe originali di Trump, mantenute e in alcuni casi aumentate dall’amministrazione Biden, hanno contribuito a un aggiustamento della bilancia commerciale tra i due paesi. Sebbene la Cina resti il primo paese con il maggior deficit commerciale nei confronti degli Stati Uniti, la bilancia è passata dai -346,82 miliardi di dollari del 2016 ai -279,10 miliardi del 2023, con una flessione del 20% (nel grafico in alto) Questo miglioramento è stato accompagnato da un aumento delle esportazioni statunitensi verso la Cina (+28% rispetto al dato del 2016) e da un calo delle importazioni di beni cinesi negli Stati Uniti (-8% sempre rispetto al dato del 2016).Oggi, gli investitori osservano con attenzione i parallelismi tra l’attuale contesto e quello del 2016, quando l’elezione di Trump portò a dinamiche ben definite sui mercati: il dollaro in rafforzamento, il boom del settore finanziario, la corsa del Russell 2000 e il calo dell’oro. E anche adesso, i dazi sembrano riemergere come uno strumento chiave di politica economica.
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