Roma, 29 settembre 2018 - L'immagine del vicepremier Di Maio che, affiancato dai suoi principali collaboratori, esulta, tra le ovazioni dei pentastellati raccolti nella sottostante piazza romana, dal balcone di Palazzo Chigi per l’approvazione della "manovra del popolo" voluta dal "governo del cambiamento" è, per certi versi, inquietante. Ma è, anche, una immagine che rimanda alla funzione anche simbolica che, nel corso della storia, balconi, balconcini e tribune hanno avuto e al loro rapporto, in primo luogo, con i movimenti populisti o con i regimi autoritari. Ma non solo.
Questo tipo di "comunicazione" politica basata sul rapporto diretto con la folla affonda le radici nel tempo. Alcuni secoli fa, per esempio, proprio nei territori di origine del capo politico dei pentastellati, si verificò un episodio significativo. Era la notte fra il 15 e il 16 luglio 1647 e il pescivendolo Tommaso Aniello – che aveva guidato la rivolta popolare dei "lazzari" napoletani e della cui salute mentale si cominciava a dubitare tanto che in giro si diceva "Masaniello è asciuto pazzo" – si affacciò dal balcone della sua abitazione di vico Rotto, scavato in volto, gli occhi spiritati, un crocifisso in mano, e cominciò ad arringare la folla. Chiamandola "popolo mio" le ricordò com’era ridotta per "le tante gabelle ed estorsioni, e per le tante tiranni che aveva dovuto subire". Non c’è, naturalmente, alcuna analogia tra il discorso improvvisato di Masaniello e l’esultante apparizione di Di Maio se non appunto la presenza del balcone, l’autocelebrazione e il rapporto diretto con la folla.
A dare al balcone una consistenza simbolica vera e propria, a farne cioè uno strumento di reale comunicazione politica, fu, secoli dopo, un poeta "immaginifico", Gabriele D’Annunzio. Durante i mesi esaltanti dell’avventura fiumana, il Vate utilizzò il "discorso dal balcone", peraltro sperimentato già durante la campagna per l’intervento nella Grande Guerra, e lo trasformò in un vero e proprio rituale, quasi un dialogo con la folla adorante: un dialogo fatto di domande retoriche e di risposte altrettanto retoriche. D’Annunzio divenne così il "gran sacerdote" di una "religione secolare" che aveva i suoi riti e i suoi simboli, come il "pugnale votivo" e la fiamma ardente, e della quale il "discorso dal balcone" era un elemento essenziale. Nasceva così la politica di massa fondata su un nuovo rapporto fra il capo e le folle. Vennero i regimi autoritari e/o totalitari. E il balcone diventò protagonista.
Venne il fascismo, per esempio, con Mussolini che, dall’alto dell’ormai storico balcone di Palazzo Venezia, gli occhi mobili e spiritati, la voce tonante, annunciava un futuro di grandezza per l’Italia e l’avvento delle "ore decisive" della storia. Venne il nazional-socialismo con Hitler che dalla scenografica balconata creata da Albert Speer a Norimberga concionava in una ambientazione quasi wagneriana. Il balcone fu protagonista, naturalmente, anche nella lunga storia dell’Unione Sovietica e della Russia post-sovietica. Ancora nel maggio 1996, per esempio, Boris Eltsin, che l’anno precedente in occasione del cinquantesimo anniversario della fine della "grande guerra patriottica" aveva ripristinato l’uso del "vessillo della vittoria" nelle cerimonie militari, evocò dal balcone del mausoleo di Lenin sulla piazza Rossa, allo stesso modo di come avveniva ai tempi dell’Unione Sovietica, i trionfi del passato.
I discorsi dal balcone, insomma, nell’immaginario collettivo vengono quasi automaticamente collegati a situazioni storiche in qualche misura legate a esperienze populiste o autoritarie. Ma, per amor di verità, bisogna ricordare che il balcone, in quanto tale, è estraneo ad esse e non può essere assunto a simbolo di una deriva autoritaria. L’11 febbraio 1990 Nelson Mandela, appena rilasciato dalla lunga prigionia, tenne il suo primo celebre discorso dal balcone del municipio di Città del Capo, dove ora, a ricordo dello storico evento, è stata collocata una grande statua bronzea. Basterebbe questo fatto, forse, a dissipare l’inquietudine suscitata dall’immagine dell’esultante Di Maio sul balcone di Palazzo Chigi. Che non è, grazie al Cielo, quello di Palazzo Venezia.