Venerdì 29 Novembre 2024
ELENA COMELLI
Economia

Concorrenza Ue, imprese in fuga

Delocalizzazione. Le cause dei trasferimenti: burocrazia, fisco pesante e lentezza della giustizia

Proteste lavoratori Embraco (Lapresse)

Proteste lavoratori Embraco (Lapresse)

In Bulgaria, dove il costo del lavoro è il più basso nell’Ue, lo stipendio medio di un dipendente in un call center non arriva a 600 euro al mese. In Romania, la manodopera a buon mercato incassa in media 400 euro. In Polonia, la busta paga di una cassiera con tre anni di esperienza supera a malapena i 700 euro. La guerra degli stipendi poveri, terra di conquista per gli imprenditori che cercano margini sempre maggiori, è in atto da tempo. Ricordiamo tutti come fece scalpore Sergio Marchionne quando decise di spostare la produzione della Fiat 500L in Serbia, in un’impianto a Kragujevaca che per l’occasione fu rimodernato e rinnovato e dove solo pochi giorni fa Fca ha tagliato il traguardo di mezzo milione di auto prodotte. Ma ora la concorrenza (sleale?) non è più solo sul costo del lavoro. Il fatto è che, mentre la Gran Bretagna della May insegue il modello Trump della corporate tax (aliquota al 15% per le imprese) con le «imposte light» e l’Irlanda si è ormai da tempo attestata al top per le multinazionali grazie alle tasse iper favorevoli su dividendi e ricerca, Paesi come Bulgaria, Ungheria, Polonia, Romania e Repubblica Ceca si stanno trasformando nei nuovi paradisi delle aliquote ‘zero virgola’ per le aziende. L’Ungheria di Viktor Orbán, destinataria di fondi europei per il 2,5% del suo reddito ogni anno (tra fondi strutturali e di coesione), è ormai il paese del Bengodi per le imprese, che spesso riescono anche a eludere le tasse dopo aver raggiunto accordi speciali in loco. La guerra dei bassi stipendi va dunque a braccetto anche con la corsa ai favori ai grandi imprenditori. La Bulgaria ha deciso di introdurre un’aliquota fissa al 10% sia per le società sia per le persone fisiche. E, come se non bastasse, sono previste esenzioni per quelle aziende che realizzino investimenti in aree depresse. Difficile competere su questi livelli, certo. Ma l’Italia ci mette del suo. Le piccole imprese nostrane sacrificano 33miliardi l’anno sull’altare della burocrazia, quasi 8mila euro a testa. La tassazione sulle imprese supera il 30% e siamo uno dei Paesi in cui è più alto il cuneo fiscale. Siamo distanti anni luce, per esempio, dalla piccola Estonia, diventata la nuova roccaforte della residenza digitale. Tallinn è ormai il paradiso delle start up, con il numero pro capite più alto dell’Unione, dove il 99% dei servizi pubblici è online.

Milano, 26 febraio 2018 - Embraco è solo l’ultimo caso. Dopo i fasti degli anni Novanta, quando lo stabilimento di Riva di Chieri era arrivato a punte di 2.200 addetti, ora l’azienda brasiliana del gruppo Whirlpool vuole spostare la produzione di compressori di frigoriferi dal Piemonte in Slovacchia, eliminando 497 posti di lavoro sui 535 rimasti in Italia, dove gli operai costano quasi 28 euro l’ora contro i 10 degli slovacchi. Ma la deindustrializzazione del Paese non si ferma qui. I tecnici del Mise stanno lavorando ai dossier di 160 aziende che rischiano la chiusura: un grande laboratorio sociale dove le imprese che escono dal tavolo (come nei recenti casi di Alcoa in Sardegna e Ideal Standard nel Lazio) vengono subito rimpiazzate da nuovi arrivi, come appunto Embraco. Negli ultimi tre anni, il Mise ha concluso con successo 175 tavoli, salvando 77mila posti di lavoro, ma tra i dossier che restano da risolvere ci sono giganti come Alitalia (12.500 posti di lavoro a rischio) e Ilva (quasi 11mila). In generale, è l’industria pesante a porre più problemi, ma non solo. Fra i ‘grandi malati’ ci sono anche marchi famosi del made in Italy, come Perugina, con 364 lavoratori coinvolti. Le motivazioni non sono uguali per tutti. Per le grandi multinazionali, il costo del lavoro e il carico fiscale mediamente alti dell’Italia possono essere valide ragioni per stare alla larga e privilegiare i mercati più poveri dell’Unione, come Repubblica Ceca, Ungheria o Bulgaria, che stanno diventando i grandi paradisi fiscali d’Europa.  "Il punto principale per sbarcare a Budapest non è l’imposta societaria al 21%, non molto distante dall’Ires italiana (al 24%)", spiega un piccolo industriale veneto che si sta organizzando per il grande passo. "Il punto è che l’imposta societaria spesso non si paga per niente, mettendosi d’accordo con il fisco locale", precisa.  Gli esempi di grandi società che intascano tutti i guadagni senza lasciare un centesimo sul territorio dove operano sono noti: li ha recentemente smascherati un’inchiesta di Finance Uncovered, Ong indipendente con sede a Londra e forti legami nell’Est Europa. Dai dati si deduce ad esempio che Foxconn, il grande fornitore taiwanese di Apple, paga alla Repubblica Ceca il 6,98% di tasse su 4,9 miliardi di euro di ricavi. Mercedes paga l’1,63% di tasse all’Ungheria su 3,4 miliardi di ricavi. La connazionale Audi, sempre a Budapest, paga zero spaccato sui suoi 8,3 miliardi di ricavi. In Italia non funziona così: gli incentivi locali per attirare le grandi imprese non mancano (Whirlpool, casa madre di Embraco, nel 2015 ha ricevuto 2 milioni di euro dalla Lombardia, dove ha 2.500 dipendenti), ma gli sconti dall’Erario sono molto più rari.  Non è questo, però, il problema principale citato dalle imprese che scappano: ci sono altri punti deboli del sistema-Italia, secondo l’Aibe Index, l’indice di attrattività elaborato dall’Associazione delle banche estere insieme al Censis. Sono il carico burocratico eccessivo (al primo posto), l’instabilità politica, l’incertezza del quadro normativo, i tempi della giustizia civile e l’insufficienza delle infrastrutture. "L’ostacolo principale per investire in Italia è l’incertezza del quadro normativo", sostiene Ingmar Wilhelm, ad di Rtr, primo operatore indipendente del fotovoltaico italiano (132 impianti per 332 Megawatt totali). Terra Firma, il fondo britannico che controlla Rtr, è deciso a uscire dal mercato italiano e ha messo in vendita il portafoglio all’inizio di febbraio, per 1 miliardo e mezzo: sarà una delle maggiori cessioni per il settore delle rinnovabili e una cartina di tornasole interessante per verificare l’attrattività dell’Italia. "Da quando abbiamo cominciato a investire nella penisola, le leggi che regolano questo mercato sono cambiate cinque volte e a ogni revisione i tempi di attesa per conoscere il nostro destino sono stati lunghissimi", rileva Wilhelm, che ha lavorato per oltre venticinque anni nel settore energetico e ha fatto parte della squadra che ha rilanciato Enel Green Power nel 2008, per cui conosce diversi mercati europei e internazionali. Nel mondo dell’energia, l’orizzonte è lungo e non si può cambiare la destinazione dell’investimento a ogni giravolta del governo. La conferma viene da un imprenditore illuminato come Gianluigi Angelantoni, che si sta muovendo per salvare Archimede, impresa umbra del solare altamente innovativa che in Italia non trova commesse, proprio per le incertezze normative. "Se i cinesi crederanno nella nostra tecnologia, ce ne andremo in Asia, per cogliere le opportunità che in Italia non si sono presentate", spiega. Per fare affari in Cina infatti bisogna andare a produrre sul loro territorio, altrimenti si resta tagliati fuori. Anche questa è competitività.